martedì 25 novembre 2014

Una storia vera del Pratello

Circa un paio di settimane, fa una ragazza è andata in uno dei bar della zona del Pratello per bere qualcosa. Chissà quante volte l'aveva fatto nella sua vita, alla fine di una settimana di lavoro. Chissà quante volte l'ha fatto ciascun@ di noi.
Qualcuno le offre un bicchiere, lei accetta. Che cazzo, è venerdì sera, domani si può riposare! Ci si può anche permettere un bicchiere in più per prolungare la serata, per rimanere in giro ancora un po' in questo tiepido autunno.
Pochi minuti dopo, il vuoto. Si spengono la coscienza e i ricordi. Quando la coscienza torna è già mattina e la stanza in cui la ragazza si trova è una stanza che non conosce. Non sa com'è ci sia arrivata, non sa in quale punto della città si trovi, non sa di chi sia quella stanza. L'uomo che l'ha portata lì, non c'è. Esce, incerta sulle gambe. Cerca un punto di riferimento nella città in cui vive - quella bella città di portici riparati e di bar affollati in cui per una serata si possono dimenticare gli affanni, in cui si possono trovare compagni per una notte dentro cui pescare ricordi di gioia nelle giornate tristi - che all'improvviso non riconosce più. O peggio, che per la prima volta pensa di conoscere davvero, come se la serenità che percepiva camminando per le sue strade, parlando con gli sconosciuti incontrati una sera, fosse stata la vera incoscienza. Che stupida, si dice. Che pazza idiota. Avrebbe dovuto saperlo. Avrebbe dovuto capirlo, prevederlo, impedirlo. Tornare a casa prima, guardandosi le spalle. Correre fino a casa. Uscire con un amico, qualcuno di fidato. Da sola mai, mai. Da sola si sbaglia, non si è abbastanza forti e intelligenti per stare da sole, per camminare da sole nella propria città, per parlare con chi ci pare, è evidente.
Non sa cosa sia successo quella notte, non ricorda nulla. Sa solo quello che le dice il suo corpo. E forse è anche peggio, perché in quel nulla potrebbe esserci qualunque cosa. L'immaginazione immerge il mestolo nel recipiente più putrido.
Arrivata a casa, telefona a qualcuno. Una voce amica al di là del telefono, c'è ancora nonostante tutto. Racconta quel poco che sa. E' terribile non poter dire nient'altro. "Ignorante", per i bolognesi, è l'insulto peggiore.
Denuncia, le dicono. No. Quel buio è una vergogna troppo grande. Quel non sapere niente di sé. Quel credersi chissà chi, stupida arrogante che pensavi di conoscere il mondo, mentre non ne sai proprio nulla. Che ci sei cascata. Che ti sei fatta fregare come se fossi nata ieri. E ora non sai nemmeno da che cosa ti stai lavando sotto la doccia. Era lui da solo o c'erano anche degli amici? Chi lo sa. Se te lo chiedessero, non sapresti rispondere. Quante volte? Non lo so. Potresti essere incinta? Potresti. Potresti esserti beccata l'Aids? Potresti. Non si può davvero portare tutto questo in cui commissariato di polizia. Non si può davvero sentirsi così stupide e incapaci e fallite in un aula di tribunale. Davanti a quegli sguardi  che dubitano prima, e poi compatiscono e rimproverano. Meglio lasciar perdere. Dopotutto non c'è niente in un quel vuoto. Ci sei solo tu.

venerdì 10 gennaio 2014

Non ci sono generazioni perdute. Una nota di Pavese.

Questa nota di Pavese, datata 1950, è una risposta al giornalista cattolico Carlo Falconi e a un suo articolo sulla narrativa di ispirazione marxista. La riporto (quasi integralmente) perché come tante cose di Pavese scritte in quegli anni mi sembra contenga degli ottimi consigli per il presente.

Per oggi ci preme rilevare la frase che uno "scrittore comunista" ha detto a Falconi intorno alla crisi, all'insufficienza narrativa del nostro tempo: "La nostra è una generazione in un certo senso perduta, e non si può pretendere di più...La nostra testimonianza non può essere che polemica e imperfetta... Domani i nostri figli... potranno essere invece i testimoni liricamente o epicamente sereni, ecc ecc". A noi questa frase ripugna profondamente, e non abbiamo difficoltà a dire il perché. Non ci sono generazioni perdute - ci sono dei lavoratori e dei fannulloni, dei confusionari e delle persone intelligenti. Se anche una sola generazione avesse il destino culturale di riuscire perduta, di sacrificarsi in toto alla successiva, allora per tutte sarebbe così e ci si domanderebbe a che scopo lavorare ancora. Chi non sa di essere felice "qui e ora", non lo sarà mai. E scrivere, sia pure combattendo, vuol dire essere felice. Lo scrittore che non si contenta del suo lavoro nei giorni che gli è toccato di vivere, non è uno scrittore. E siamo certo che non lo sarà nemmeno nel giorno beato in cui la società finalmente socialista gli offrirà i più impeccabili modelli di civismo. Allora troverà che il mondo non è ancora comunista. E così via.
La poesia (anche quella dei neorealisti) non ha nulla a che fare con queste velleità, con queste scappatoie. La poesia è l'immagine "chiara" di ciò che nell'esperienza ci è parso "oscuro", "misterioso", "problematico". In qualunque esperienza. E in qualunque momento storico ci tocchi di vivere.

(Da La Letteratura Americana e altri saggi)

domenica 15 dicembre 2013

Quando non c'erano i #forconi

Ho abbandonato da tempo questo blog al suo destino, ma mi sembra che possa essere utile recuperarlo per rievocare dei ricordi, ricordi punzecchiati dagli eventi recenti e dal dibattito che ne è seguito. Parlo ovviamente dei famigerati forconi e della reazione che hanno suscitato in molti siti di movimento. La discussione sulla necessità di intervenire o meno è a dir poco accesa, e ha prodotto un fiume di articoli con cui è praticamente impossibile restare al passo.


Ebbene, a me i forconi non hanno fatto venire in mente gli eventi di Piazza Statuto del 1962, per niente, e invece mi hanno portato alla mente fatti ben più vicini nel tempo, ma per contrasto. Era il 2011, mese di maggio, quando in Spagna le piazze erano abitate notte e giorno da migliaia di persone, a loro volta ispirate dalle piazze tunisine ed egiziane, e negli Stati Uniti si preparava quel ciclo di lotte che ha portato, due anni dopo, tra le altre cose all'incredibile elezione di una socialista nel consiglio comunale di una metropoli come Seattle.


Dalle nostre parti, a maggio, quell'onda anomala era arrivata in modo appena percepibile, un singhiozzo d'acqua di laguna. Eppure i numeri complessivi delle sconclusionate piazze “indignate” italiane non erano diversi da quelli visti in questi giorni. Sottraete alle mobilitazioni odierne i fasci e i personaggi in odore di criminalità organizzata, e avrete all'incirca i numeri delle acampade nostrane, con l'indiscutibile di più di una distribuzione più capillare, non relegata (sempre nella formula manifestazioni meno fasci) a Torino e a pochi altri sprazzi.


C'erano indubbiamente molta confusione, molta ingenuità e disorganizzazione; ignoranza e populismo, anche, a volte. Ma fascisti non ce n'erano. Non c'erano realtà organizzate che stavano cercando di costruire un fronte sociale reazionario, né imprenditori in Jaguar, né mafiosi, né padroncini vari con in cuore il sogno delle giunte sudamericane. Non c'erano neanche i media, e questo è un punto da tenere a mente.


A Bologna – parlo di quello che è successo qui perché, visto il carattere davvero spontaneo di quelle piccole mobilitazioni, avere un'idea esaustiva di quello che accadeva altrove non era facile – in piazza c'erano studenti universitari e medi, giovani precari, disoccupati, operai, migranti, senzatetto, poveri di ogni tipo. Tra le azioni che avevamo, nel nostro piccolo, compiuto, c'erano iniziative di solidarietà verso i rifugiati che dormivano ai giardini della Montagnola, assemblee di rudimentale auto-coscienza sulle problematiche di genere, gruppi di discussione su temi come precarietà e reddito minimo, sostegni ai presidi anti-sfratto e alle lotte per il diritto all'abitare, assemblee nelle quali erano invitati a portare le loro testimonianze militanti No Tav e operai in lotta.


Il tutto in piazza Maggiore, con un sistema di amplificazione raffazzonato mettendo insieme pezzi dati in prestito da persone comuni e con le cene nelle quali ognuno portava qualcosa, compresi i senzatetto, che quando potevano prendevano qualche merendina in più alla mensa della Caritas. A volte erano degli sconosciuti passanti a portarci qualche panino e un pacco di biscotti. Avevamo persino trovato il modo di fare delle vere e proprie tavolate comuni.


Avevamo una piccola biblioteca di strada e una mostra fotografica, appesa ai muri esterni di Palazzo d'Accursio, e avevamo adornato il monumento ai partigiani di piante vive, che con le loro radici dovevano opporsi alle corone di fiori morenti deposte dalle autorità. Gli spazzini venivano a salutare quelli di noi ancora svegli nel cuore della notte, e poi passavano oltre, senza neanche scendere dal furgoncino. Piazza del Nettuno, nonostante il caos di pentole, cartelli, coperte, teli anti-pioggia, a detta sempre degli stessi spazzini, non era mai stata più pulita.


Noi, poi, avevamo l'assemblea, una cosa che non si è vista, che io sappia, nelle proteste di questi giorni. Tra i forconi bolognesi, per lo meno, so di per certo che l'unico vago scimmiottamento di questa pratica è stato portato da un pittoresco personaggio locale, e non certo dai promotori. Da noi, l'assemblea prendeva le decisioni, ed era davvero aperta e libera da scelte predeterminate, persino troppo. È vero, assomigliava a un raduno di fricchettoni fuori tempo massimo, ma tanto quanto i gruppi che oggi vanno a minacciare i negozianti, tra cui quelli di una libreria di sinistra, sembrano squadracce fasciste.


Militanti politici se ne videro, certo. Erano diversi i/le compagn* che passavano e che avevano voglia di “sporcarsi le mani”. Pochissimi, però, in confronto ai numeri che contavano allora le realtà di movimento bolognesi. Meno ancora le realtà organizzate che erano intervenute, per così dire, mettendoci la faccia. Molt* di noi scrutavano l'orizzonte in attesa di quella stragrande maggioranza di realtà di movimento, con le loro analisi avanzate e la loro capacità organizzativa, che ci ignoravano, insieme al 90% di giornali, radio e tv, anche locali. Continuarono a ignorarci, lanciandoci persino addosso il sospetto di cripto-fascismo, oggi tanto stigmatizzato quando pure in piazza ci sono i fascisti veri. Quel movimento confuso, sconclusionato, ignorante – ma lo eravamo poi tanto? - finì come era iniziato, senza analisi sociologiche o dilanianti discussioni a dirimerne le ambivalenze, quelle sì, proficue.


Ora, perché a due anni di distanza, con i forconi ci si comporta così diversamente? Perché d'improvviso quel movimento che di spontaneo ha davvero poco, che risponde a parole d'ordine reazionarie, che picchia e minaccia, che applaude Forza Nuova e fischia la Fiom, diventa un terreno d'intervento così imprescindibile? Non dico che sia sbagliato intervenire, laddove in piazza ci sono i poveri che Revelli descrive, ma perché ora sì e allora no? Non è che il fatto che su quelle proteste siano accesi tutti i riflettori del paese c'entra qualcosa? Non è che il senso comune di sinistra è finito anche un po' perché in passato è stato ignorato, considerato troppo spurio e irrecuperabile?


È vero, c'è un grande lavoro di rialfabetizzazione da fare e c'era anche allora. Ma allora c'era gente comune – non militanti politici o lavoratori della cultura, ma studenti, operai, disoccupati, lavoratori sepolti nel sotterraneo del nero, senzatetto e migranti – che in piazza, invece della bandiera italiana, spontaneamente, perché sembrava loro un bisogno, portava una biblioteca.



Dedico questa piccola riflessione ad Antonio, il miglior bibliotecario che Piazza Maggiore abbia mai visto.

giovedì 27 giugno 2013

Su Decreto Lavoro e inquietanti coliti

Recupero questo comatoso blog per parlare dell'argomento del giorno, cioè il Decreto Lavoro del governo Letta (o Letame, come l'ho sentito propriamente descrivere da Giorgio Canali).

Ebbene, questo decreto è una merda, senza mezzi termini. E' inutile se non dannoso, perché nei fatti incentiva i datori di lavoro a discriminare i lavoratori sulla base di fattori dettati da nient'altro che il puro intento propagantistico.

Ma quello che mi inquieta non è il decreto in sé (ma che ci si può aspettare da un governo che contiene al suo interno tutte le forze politiche - comprese quelle "tecniche" - che hanno devastato il paese dall'inizio della storia repubblicana?) quanto le reazioni che il decreto ha suscitato, le coliti che ha acutizzato, facendo emergere pulsioni assai spregevoli e che dimostrano quanto poco si riesca a tenere la barra dritta, anche tra coloro che pure si esaltano per le rivolte in giro per il mondo e si definiscono di sinistra.

"Ecco! In Italia studiare non serve a un cazzo" si urla a gran voce. Ma la realtà è che affermare una cosa del genere non è molto diverso da dire "gli immigrati ci rubano il lavoro", è un moto che proviene dalle panze corporative degli istruiti contro quelli che istruiti non sono (o che, per esempio, non hanno un titolo di studio riconosciuto in Italia, anche se magari un diploma ce l'hanno).

La realtà è che studiare in Italia serve eccome. Basta dare un'occhiata velocissima ai dati sulla disoccupazione, qui: se il tasso di disoccupazione in Italia è all'inizio del 2013 al 12.8%, è del 16.2% tra chi ha solo la licenza media, con una punta del 24.9 al sud. Il tasso di disoccupazione decresce costantemente mano a mano che il titolo di studio sale di livello: tra i laureati il tasso è del 7.6, meno della metà rispetto a coloro che hanno solo una licenza media. Quindi, poche balle. La vita è dura, durissima, per tutti, ma studiare in Italia serve, certamente meno che in passato e meno che in altri paesi, ma serve. Serve anche per andarsene a cercare fortuna altrove. I cervelli in fuga sono tali proprio perché in valigia hanno un bel pezzo di carta, altrimenti non sarebbero cervelli ma solo braccia, braccia che andrebbero a competere con altre provenienti da ogni parte del mondo. Le braccia si trovano ai quattro angoli della terra, le università che danno accesso ai migliori Phd del globo invece no.

Eppure la narrazione del laureato avvilito dal suo infame paese, dello startupper nato che però non trova occhi disposti a riconoscerlo, del giovane diamante grezzo in attesa di brillare, sembra aver attecchito ben oltre i confini editoriali nei quali è stata coltivata con abbondante concime (appunto). Sarà perché é una narrazione consolatoria, persino prestigiosa, che regala ai laureati una nobile e onorevole frustrazione (un piccolo "lusso spirituale" da concedersi per sentirsi meglio) che li distingua allo stesso tempo dalla mediocrità della vita fantozziana da colletti bianchi, e anche dalla plebaglia dequalificata che magari vota pure Berlusconi.

Magari è solo un minuscolo riflesso addominale, magari è che in tanti hanno una dieta troppo ricca di fibre. O magari no.

venerdì 22 marzo 2013

Le possibilità della lotta

Ho pensato tanto a te oggi, amico mio. Oggi c'è lo sciopero dei tuoi vecchi colleghi, di quell'epoca in cui eri così clandestino che per lavorare avevi dovuto fingerti un altro. 

A Piacenza quelli che facevano come te sono finiti assunti coi documenti veri, in regola. Niente CIE, né giudici, né rimpatri. Quella loro bugia necessaria cancellata dalla memoria vendicativa dei datori di lavoro e delle forze dell'ordine, e conservata solo tra le memorie utili, per ricordare per quali strade pericolose si cammina quando si è costretti.

Se fossi stato anche tu tra di loro, la tua vita sarebbe stata diversa. Non avresti dovuto scappare, con il motorino rotto e una gamba ferita dopo un incidente. Non avresti dovuto pregare per tenerti il più misero dei posti di lavoro. Se sei solo, i guai iniziano a bisbigliarti nelle orecchie ed è facile confondere quel mormorio incessante con quello delle persone pie. Alla fine hai cominciato a mormorare tutto il giorno anche tu. E poi c'è stato il sindacato. Quello che hai scelto, nonostante tutta la sua storia e le sue grandi bandiere rosse, era certamente quello sbagliato. E' stato quel sindacato a darti la prova più convincente che tutto è nelle mani di Dio.

Forse, se tu fossi stato tra quei lavoratori, ti saresti sposato. E magari a quest'ora avresti anche i bambini che desideravi. Invece sei da qualche parte a studiare da prete e a spendere i tuoi ultimi capelli neri in cambio di un disegno celeste in fondo al quale, in un luogo imperscrutabile, dovrebbe finalmente trovarsi la giustizia.

Quando ci siamo conosciuti eri il più ottimista degli ottimisti, mentre non è ottimismo quello che hai ora. E' solo l'ultimo giro della speranza prima che la giostra chiuda. E' l'ultima possibilità degli uomini e delle donne soli, che non hanno attorno altre braccia e altre gambe che non siano le loro. Tante braccia possono fermare un camion, e poi un altro e un altro ancora. Possono fermarli anche tutti. Possono fare qualunque cosa.

venerdì 8 marzo 2013

Quando le donne fanno la rivoluzione: un'intervista sull'Egitto, sulla repressione e su chi si organizza per affrontarla

 Tutti i grandi cambiamenti storici sono avvenuti per mano di donne e uomini, da sempre. E tuttavia all'interno di quei cambiamenti le donne non devono lottare solo per portare avanti le loro idee, ma anche, spesso, semplicemente per poter essere presenti, per avere un luogo in cui lottare. E nella lotta devono anche combattere un'ulteriore battaglia, quella della memoria, quella che vorrebbe tramandare il loro contributo alla storia solo come contributo di madri o mogli di martiri, per sempre ricoperte dalla cappa del lutto e della celebrazione, che isola, rende mute e invisibili.

Oggi le donne egiziane scendono in piazza per chiarire ancora una volta che non vogliono essere zittite, né dalle torture inflitte loro nelle piazze o nelle caserme, né da un apparato di potere che già cerca di cancellare la memoria della loro presenza attiva nella rivoluzione.

Ho intervistato T., un ragazzo italo-egiziano che, dopo alcuni viaggi di studio, ha al momento deciso di rimanere al Cairo anche per continuare a fare la sua parte nella rivoluzione. Oggi è membro di Operation Anti-Sexual Harassment/Assault (qui la loro pagina Facebook e qui il loro profilo Twitter), un gruppo attivo al Cairo che cerca di fronteggiare la repressione in atto contro le donne. 
 
Com'è nata l'esperienza di Operation Anti-Sexual Harassment/Assault?

Il gruppo è nato dall'esigenza di fronteggiare gli attacchi in piazza, un nucleo di attivisti si è riunito in un'assemblea iniziale, in cui sono state stabilite le esigenze e il tipo di intervento, poi è stato lanciato un gruppo Facebook, tramite il quale chiunque volesse aderire all'iniziativa si può presentare alle assemblee dove si viene istruiti e si provano tattiche e strategie. Lo scopo del gruppo è salvaguardare la presenza naturale delle donne in piazza durante le manifestazioni.


Quanti siete e come si articola al momento questa operazione?
 
Il numero è estremamente variabile cambia da assemblea ad assemblea anche a seconda di quanti casi ci sono stati nei giorni precedenti l'assemblea. Io faccio parte del gruppo di interventi e l'ultima volta in cui sono sceso in piazza eravamo due gruppi di 25 persone circa. Rimane il fatto che i gruppi d'intervento non sono che l'appendice di una operazione più grande fatta di attivisti che magari non scendono in piazza, ma che hanno disegnato le nostre magliette o che ci aiutano a raccogliere fondi. Senza contare quelli incaricati di tranquillizzare e confortare le vittime degli attacchi.  
 
Come siete organizzati durante le manifestazioni e quali sono le azioni che portate avanti al di là di esse?
Le nostre azioni sono sempre dei contro interventi, non facciamo operazioni di polizia interna, quando avvengono degli attacchi ci portiamo al limitare dell'area della folla che sta cercando di molestare/violentare la persona in questione e utilizzando delle tattiche dissuasione e dispersione della folla ci facciamo largo nel gruppo di assalitori fino a recuperare la ragazza che viene poi portata al sicuro in un luogo che è sconosciuto persino a noi del gruppo di intervento, onde evitare infiltrati e rappresaglie. Al di là degli interventi durante le manifestazioni ci sono le assemblee in cui proviamo le manovre di salvataggio e recupero, se così si possono definire, le donne che fanno parte dei gruppi addetti a rassicurare e confortare la vittima e controllare il bisogno di intervento medico vengono preparate in maniera specifica da alcuni attivist*, in stanze separate dalle nostre quindi non so in cosa consista esattamente la loro preparazione.

Avete ricevuto delle minacce e degli attacchi?
 
Non il nostro gruppo fortunatamente, un gruppo parallelo che si occupa dello stesso problema, ma con un altro approccio, è stato identificato seguito e attaccato nel momento assembleale, le donne sono state pesantemente molestate e gli uomini malmenati. Questo chiaramente ci invita alla prudenza. 
 
Pensi/pensate che gli attacchi contro le donne nelle piazze egiziane siano parte di un progetto e pensi che ci siano un'organizzazione e una direzione?

Penso che ormai sia sciocco pensare il contrario, gli attacchi avvengono sempre nelle stesse posizioni geografiche della piazza, sempre con le stesse modalità. Hanno come scopo l' intimidazione, spingono le donne a non partecipare, a partecipare meno o ad avere paura e a non sentirsi tranquille quando partecipano. Certo è opportuno ammettere che il problema è sociale e che gli attacchi hanno successo e sono efficaci perchè aumentanoesponenzialmente il bacino di interesse una volta scaturiti, ogni osservatore o passante può diventare un assalitore. E' chiaro a mio avviso che se da un lato abbiamo delle azioni e delle strategie precise di attacco alle donne che vogliono partecipare alla vita politica della piazza dall'altro abbiamo un evidente problema per cui molti giovani uomini vedono la sessualità come forma di punizione e umiliazione sociale.
 
C'è stata un escalation in questo tipo di attacchi? Come si inseriscono, secondo te, negli eventi del processo rivoluzionario egiziano?
 
Il primo di questi attacchi è stato ai danni di una giornalista straniera, credo americana, il giorno delle dimissioni di Mubarak, giorno in cui la piazza è stata aperta anche ai non militanti, in modo che tutti potessero celebrare la "vittoria" della rivoluzione. Personalmente non ho creduto subito a questo tipo di storie, sia per il modo in cui è stata raccontata sia per l'assenza di qualsiasi forma di molestia nei 18 giorni di occupazione della piazza, c'è stata per un certo periodo di tempo una certa riluttanza ad accettare l'idea che le cose fossero diverse dai 18 giorni. Poi c'è stato l' 8 marzo ( nel 2011), in cui le donne sono state attaccate da gruppi di islamisti, e infine oggi in questi giorni gli attacchi sono sistematici, e l'escalation è evidente.
 
Ho letto (qui) che la violenza sessuale contro le manifestanti era una prassi utilizzata già dal regime di Mubarak, che ora viene semplicemente pagata da un'altra tasca. Sei d'accordo?

 Bisogna tenere presente che io non ho visttuo a lungo l'era Mubarak. Le molestie sessuali sono una bruttissima forma di repressione delle donne che nella società egiziana è presente da anni. Mubarak avendo fallito nel rispondere alle vere esigenze della popolazione è senz'altro responsabile di questo tipo di cambiamento sociale. Quanto all'utilizzo della molestia sessuale come strategia di intimidazione politica, è cosa nota che avvenga tra le polizie di tutto il mondo, e la polizia di Mubarak non faceva certo eccezione. Invece gli attacchi di massa ad una ragazza, che finiscono a volte con lo stupro sono a mio avviso un'altra cosa. Sono modalità che non ho mai visto prima, non penso che gli assalitori siano tutti pagati, forse qualche provocatore, quanto alle armi ( coltelli, tasers, rasoi) che alcuni di essi utilizzano non sono nè costose, nè difficilmente reperibili in Egitto. Senz'altro abbiamo già visto questo tipo di violenza concertata contro le donne già durante il regime militare che ha "retto " il paese fino alle elezioni presidenziali.
 
In questo articolo si sostiene l'esistenza di un tentativo, da parte delle forze attualmente al potere in Egitto, di relegare la rivoluzione ai 18 giorni del gennaio-febbraio 2011, negando, così, l'essenza rivoluzionaria delle proteste successive a quelle date. Pensi che i terribili episodi di violenza del 25 gennaio di quest'anno si inseriscano in questo quadro? Che servano anche per creare agli occhi dell'opinione pubblica un “epoca d'oro” della rivoluzione, contro un presente che è invece solo disordine e sofferenza? La costruzione del mito della rivoluzione egiziana del 2011 (quella che si vuole relegata a quelle giornate del 2011) è già pienamente in corso: che ruolo hanno le donne in questo mito?

La reazione ad ogni rivoluzione in corso è quella di celebrarne la vittoria e dichiararla conclusa, è un modo per fermare il processo rivoluzionario, già i militari dello SCAF definivano "Gloriosa" la rivoluzione e parlandone al passato fallivano nell'interpretarne il significato e la portata sociale. La costruzione del mito della rivoluzione significa cristallizarla e dichiararne adempiute le aspettative. Ovviamente siamo molto lontani dalla conclusione di questo processo rivoluzionario. Le donne in questa rivoluzione vengono cristallizate nel ruolo di madri dei martiri. Nessuno ai piani alti sembra ricordarsi delle molte donne velate, non velate e munaqabat ( con il velo integrale che copre il volto) che hanno manifestato e manifestano tutt'ora il proprio dissenso.
Ho letto (qui) una vostra accusa rivolta ai partiti e ai gruppi rivoluzionari, che sarebbero indifferenti rispetto ai pericoli che corrono i manifestanti e le donne in particolare. Puoi parlarmi dei motivi di questa accusa? 
 
 No, non posso parlare di dichiarazioni fatte da altri. Per quanto mi riguarda la nozione stessa di partito rivoluzionario è un ossimoro. I gruppi rivoluzionari invece si occupano della propria difesa anche tramite iniziative come la nostra. Di certo le opposizioni potrebbero fare di più nei confronti della propria base e anche degli anonimi rivoluzionari che hanno un nome solo dopo essere stati uccisi dalla polizia o dalle milizie e dichiarati martiri.

mercoledì 16 gennaio 2013

L'apprendista

La neve è una di quelle cose che fanno la differenza. La differenza tra chi, pur lavoratore di braccia, non è obbligato a stare all'esterno sotto le intemperie, e chi invece deve continuare ad andare fuori comunque, anche quando la strada diventa molle e si ricopre di schiuma, come se qualcuno avesse strizzato dal cielo una spugna imbevuta di detersivo.

Il carpentiere è un lavoro dignitoso, e infatti nessun carpentiere lavora sotto la neve. I fattorini e i camionisti, quelli guidano al riparo, e possono parcheggiare accanto a un portico, in modo da passare meno tempo possibile con il viso esposto alle intemperie.

I lavoratori delle cucine, poi, potrebbero persino non sapere che nevica. E' sempre estate vicino alla stufa e davanti alla bocca del forno. Un'estate torrida, umida di vapori di glutine e graffiante di spezie, ma pur sempre estate. E il tuo contratto del resto dice che tu sei uno di loro. Un apprendista, certo, uno che sta imparando e che per questo viene pagato ben poco, ma uno di loro. Ai lavoratori delle cucine non servono la giacca imbottita, il motorino, il cappello di lana, i guanti impermeabili. Potrebbero scendere dall'auto in sandali e maglietta, se lo volessero. Dovrebbero solo camminare fino alla porta sul retro, sarebbe quello l'unica parentesi di inverno che incontrerebbero.

No, quest'anno la neve non ti tocca, pensi. Il tuo posto è ora accanto al cuoco, a curvare la schiena sui banchi e sui taglieri, in compagnia delle verdure, dei sughi, dei salumi e dei formaggi, nel mezzo del loro calore. Il capo questo non lo ha ancora capito davvero, e allora tanto vale forzare un po' la mano. Oggi nevica, e al lavoro ci vai in autobus, come tutti i lavoratori che hanno il diritto al riparo.

Ma poi in cucina il telefono inizia a squillare, più battente della neve bagnata che scende fuori. E il cibo si accumula vicino alla porta, mentre le padelle non vedono l'ora di sgravare il loro carico e di darlo alle pance affamate. Nessuno è disposto ad aspettare il suo turno, neanche quando fuori precipita una pioggia marcia e gelata che sembra latte cagliato. Il capo urla e ti manda affanculo. Ti ordina di andare fuori, a piedi, con le tue scarpe da ginnastica e il maglione leggero. Cammini veloce, a passi piccoli, come se avessi una carta gioco infilata in mezzo alle cosce. La barba ti cresce sulle guance come se fosse passato un giorno intero.