mercoledì 23 marzo 2011

Disoccupati nel cyberspazio

Il giovane disoccupato - e il laureato disoccupato in particolare – è sovente una creatura mossa da grandi impeti d’inquietudine. Trovandosi in una selva di altevie sdrucciolevoli, di sentieri intricati, di spinosi passaggi tra i pruni, egli aguzza tutti i sensi, alla ricerca della strada più fruttuosa e meno irta di pericoli. L’interinale? La Partita IVA? Lo stage? Quale sarà la scelta giusta?

A taluni – anzi, talune – capita di imboccare la via dell’outsourching online, finendo per ruzzolare direttamente nel bel mezzo di una delle numerose piazze virtuali che internet riserva a chi cerca un impiego da casa. Qui i lavoratori più avvezzi alle nuove tecnologie fanno bella mostra di sé sulla promenade degli employers, sventolando un portfolio di progetti già realizzati e canticchiando sincopate descrizioni dei rispettivi skills. Io, su consiglio di amici di amici, finii su Odesk.

Odesk è il sogno di qualunque sincero sostenitore del libero mercato: lavoratori di ogni parte del mondo possono scorrere le offerte di lavoro e candidarsi per una qualunque di esse, gareggiando sulla base delle proprie capacità (che il sito certifica tramite appositi test), dei tempi di consegna, nonché, com’è ovvio, del salario. Quest’ultimo, viene contrattato direttamente tra le due parti: il datore di lavoro indica una cifra già nell’offerta, il lavoratore deve a sua volta deciderne una quando si candida. Può scegliere se alzare o abbassare la posta, a seconda di quale crede che siano le leve in suo possesso. Se è dotato di abilità molto specifiche o di alto livello, la sua professionalità potrebbe convincere l’employer a spendere più di quanto aveva preventivato; se, invece, ha un profilo generico o non ha maturato molta esperienza nel suo campo, proporrà un prezzo più basso, così da guadagnare in feedback e costruirsi man mano un portfolio più ricco. Le contrattazioni avvengono in privato, ma chiunque può leggere sul post di un’offerta di lavoro qual è la paga media richiesta da coloro che si sono candidati.

Una volta che c’è l’accordo, viene fatto partire un contratto con i termini a cui si è giunti. Se è prevista una paga oraria, datore e lavoratore si relazioneranno tramite il filtro di un programma che il sito stesso mette a disposizione, il quale monitora il pc del lavoratore, inviando dei report che contengono sia immagini della webcam che fotografie dello schermo. Tale sistema rassicura, ovviamente, il datore di lavoro, ma costituisce anche una sorta di tutela legale per il lavoratore, che può dimostrare l’effettivo mantenimento di quanto pattuito. In caso di controversie, Odesk assicura persino lo svolgimento dei processi, analizzando i casi e decidendo, sulla base della documentazione che employer e contractor sono in grado di fornire, chi abbia ragione. Qual è la legge a cui il sito fa riferimento? La sua ovviamente, ovvero l’insieme delle policies che chiunque si iscriva è tenuto a visualizzare (anche in forma di video) e sottoscrivere. In pratica, un paradiso per qualunque libertario made in USA.

Dove sta l’inghippo? Da nessuna parte, se vi va bene essere pagati in dollari mentre per campare vi servono euro (date un’occhiata a un convertitore di moneta, se non vi è chiara la differenza), se trovate ragionevole contrattare un salario sulla stessa piazza di persone che vivono in India o in Ucraina e se vi aggrada l’idea di lavorare su tempi strettissimi, spesso ricevendo solo un abbozzo di istruzioni dall’employer, il quale tendenzialmente si relaziona con voi meno possibile.

Tuttavia, se volete dare una sbirciata al villaggio globale, Odesk fa per voi. Del resto, per il nostalgico comunitarista che teme la scomparsa delle tradizioni patrie, ho una buona notizia: il Bel Paese non s’è affatto dissolto nel magma, ma mantiene ben vive le sue specificità culturali. Per esempio, il primo contratto che ottenni su Odesk era per conto di un sito italiano, che si occupava di sbobinare lezioni universitarie, convegni, interviste e via dicendo. Il file che la titolare mi inviò era una vera fregatura: era stato registrato di nascosto e le voci che si udivano (male) si sovrapponevano di continuo, utilizzavano espressioni dialettali, discutevano animatamente a proposito di affitti e proprietà contese, a tratti urlando, ringhiando nomi impossibili da comprendere. Lavorai un giorno intero, fondendomi le meningi nel tentativo di tradurre in un testo quella cacofonia di improperi e rumori di fondo, per guadagnare dieci dollari. Era la mia prova del fuoco, l’equivalente accelerato dello stage schiavistico alla Boris.

La titolare mi pagò, promettendo che mi avrebbe ricontattato per includermi in pianta stabile nello staff del suo sito, poi sparì. Quando la ricontattai, mi disse che il mio lavoro era fatto male e che aveva dovuto rivederlo interamente. Pensai che fosse una balla, ma decisi di proporle un altro tentativo, chiedendole, però, istruzioni più precise. Lei mi rispose allegando uno scarno elenco di regolette, dicendo che magari, un giorno, avrebbe organizzato un corso di formazione. Mi inviò una serie di lezioni universitarie, ben registrate, che trascrissi con grande impegno. Lei le accettò, mi fece i complimenti e poi scomparve nel nulla. Dei soldi, non ho mai visto neanche l’ombra e in un battibaleno sparì anche il suo sito.

Insomma, se siete disoccupati e volete avventurarvi nel cyberspazio, sappiate che anche lì vi chiederanno di lavorare gratis con le motivazioni più incredibili e che vi capiterà, ancora, di sentirvi ripetere il solito mantra del “devi fare esperienza”. In ogni caso, per precauzione, schivate gli italiani.

mercoledì 16 marzo 2011

Due su tre

Mentre mi trovo al quarto, ultimo, laboratorio del Cip, mi chiedo in quale altro paese al mondo si utilizzano i dati sulla disoccupazione per motivare una platea di neolaureati disoccupati. Sono assolutamente convinta che la situazione attuale non sia il frutto dei soliti mali italioti – la disorganizzazione truffaldina, le meccaniche para-mafiose, le incrostazioni partitiche e via ad nauseam – ma rientri in un disegno globale che si propone il pianificato impoverimento della popolazione a favore di un elite di ricchissimi. Ma questa cosa qua, questo particolare tipo di follia, mi sembra davvero tutta nostra.

In Italia i problemi non si risolvono, si gestiscono. E’ un adagio risaputo, ma che continua a lasciarmi a bocca aperta. “Se avete letto i giornali”, ci dice l’insegnante, “sapete che un giovane su tre è disoccupato. Bene, voi dovete fare in modo di essere tra gli altri due!”. La cosa straordinaria di lei, questa donna marziale ed efficiente, con la voce schiacciata sulle note basse da decenni di tabagismo e il taccuino di Unindustria tra le mani, è che non mente. Riversa sul tavolo la verità, professionalmente, come fa solo chi abbia una fede profonda e informata. Ci spalanca le porte della cultura aziendale con una generosità bruta, da donna d’azione che si sente a suo agio nel boato incessante degli ingranaggi, meno nella molle apatia del mondo esterno.

Per riuscire nell’impresa, per essere parte della frazione fortunata, dopo tre laboratori sappiamo già cosa dobbiamo fare. Corteggiare il selezionatore, trasmettergli il nostro entusiasmo e la nostra energia: lui ha bisogno di sentirsi gratificato. Sul posto di lavoro, fare tutto ciò che ci viene richiesto, senza domandarci se si tratta di qualcosa che ci compete o meno. Non abbandonare i nostri sogni, che quelli ci rendono belli e focosi, come in uno di quei reality sulle scuole di danza; è quella la gioventù che i selezionatori di risorse umane, evidentemente accaniti divoratori di programmi trash, desiderano incontrare ai colloqui.

Il terzo che rimane fuori non esiste, non è un nostro problema, non ci riguarda. Né tantomeno riguarda i selezionatori, che hanno il potere di decidere in quale fetta della torta staremo. Il terzo è irragionevole, è scansafatiche, è colpevole. Loro sono realisti, parlano di cose concrete, non di utopie irrealizzabili. Perché il mondo va così.

Eccola, la lezione di oggi: diventate parte di quei due, in qualunque modo. Andate all’estero, fatevi raccomandare, fatevi il culo come stagisti. Chi l’ha detto che dovete restare qui se non vi piace come vanno le cose? Andate in un altro paese, fatevi assumere lì, quando tornerete non sarà cambiato nulla ma voi sarete più appetibili. Perché qui non cambia mai nulla.

Quella torta bicolore, con il suo spigolo di centoventi gradi, è una verità implacabile, che ricadrà immancabilmente su di noi, come una trappola per animali. In una sezione del recinto ci raseranno il pelo ma avremo fieno e acqua a sufficienza; nell’altra, ci toccherà ruminare la poca erba che ci allungheranno i passanti in cambio di un belato e di una toccatina al nostro mantello morbido. Bisogna cercare di trovarsi dalla parte giusta.


giovedì 10 marzo 2011

Acqua

La mia amica S. conosce sei lingue. S’è laureata con il massimo dei voti e dignità di stampa della tesi, dopodiché ha tentato diversi dottorati, venendone sempre respinta perché incapace di portare in dote l’aggancio giusto. Dopo un anno trascorso tra volontariato, ulteriori corsi di lingue e pellegrinaggi all’università nel tentativo di vedere finalmente pubblicata la sua tesi, ha trovato un master. Un master di cui la Regione promette di rimborsare le spese, studiato per operatori del campo socio-sanitario ma affollato da laureati in lettere, scienze politiche, lingue.

Dopo due anni di corsi di basso livello e un tirocinio speso a girarsi i pollici, ha risolto la questione master con una discussione di tesi superficialissima e l’invio dei moduli per il rimborso. Nel frattempo, ha vinto il bando per il Servizio Civile.

Ora, a ventisette anni, S. fa l’educatrice a 400 euro al mese grazie alle risorse di un programma statale che, in origine, aveva lo scopo di consentire ai giovani obiettori di adempiere ugualmente al “dovere costituzionale di difesa della Patria”.

Lei sa tante cose, tantissime, ma non sa proprio essere una buona candidata per un selezionatore di risorse umane: è troppo dura e acuminata per loro. Non possiede quel misto di candore adolescenziale e autodisciplina che il mondo del lavoro pretende da noi giovani disoccupati. Come ginnaste impegnate a governare l’imprevedibile fisica dei nastri, esso ci desidera eteree, leggiadre, sorridenti, dotate di una bellezza innocua e di un ferreo controllo su noi stesse.

Ci sono persone, come S., che non si avvicineranno mai a questo standard, ma che non possono semplicemente essere messe alla porta. Sono il frutto della democratizzazione dell’istruzione universitaria, figlie della classe media che hanno seguito un percorso di studi spesso di alto livello, con risultati brillanti: sono l’orgoglio di papà. Così perfette fino al conseguimento della laurea, così inadeguate immediatamente dopo, lo Stato non può semplicemente abbandonarle a loro stesse, perché ciò equivarrebbe a dichiarare la sua sconfitta, a strappare il velo sulla sua ipocrisia. Inoltre, se qualcuno deve essere testimone delle voragini che si aprono sotto il cerone del sistema, meglio che sia un ignorante, un criminale o un clandestino. Non certo loro.

Su di loro bisogna gettare acqua, far spillare sulle loro testa un rivolo fresco; sistemarle anno dopo anno, parcheggiarle di progetto in progetto perché si tengano impegnate fin quanto l’età, qualche provvidenziale conoscenza, un colpo di fortuna – o dei figli – le renderanno incapaci di nuocere. Farle lavorare nel sociale, perché tanto è la loro natura, non chiedono altro: procurargli un disabile, un bambino disagiato, un anziano di cui possano prendersi cura. Poi si sposeranno, erediteranno una casa magari, si inseriranno al posto di qualcuno che andrà in pensione, con stipendio ridotto e fondi dimezzati, perché con i tempi che corrono.

Se non ce la fai con le aziende, ti facciamo passare dalla porta di servizio: per non farti venir voglia di cambiare le cose, ti appuntiamo subito al petto la coccarda di anima bella, così penserai di essere già dalla parte giusta. Lo Stato è quello del Servizio Civile e del welfare, mica quello delle leggi per la precarizzazione del lavoro, degli accordi bilaterali con dittatori psicotici per favorire le imprese nostrane, dei tagli alle pensioni, alla sanità, alla scuola. Quelli sono cose che capitano, è colpa di Berlusconi, della Gelmini, del bunga bunga. Noi in realtà siamo diversi.

lunedì 7 marzo 2011

Rapporti di potere

Stamattina mi presento al colloquio di orientamento al Cip. Quando arriva il mio turno, un uomo sui sessantacinque mi incita, con l’aria boriosa del padrone di casa, a seguirlo alla scrivania.

Dopo qualche battuta di presentazione, gli parlo di un percorso di “working experience” che avevo avviato con il Cip della mia città natale, che prevedeva – forse, un giorno, se ci sono i fondi – una possibilità di stage retribuito. Gli chiedo se sarebbe possibile spostarlo a Bologna, dato che ora vivo qui. L’impiegato sgrana gli occhi, certamente colpito dagli innumerevoli errori logici che ho compiuto: “Non vedo proprio come ciò possa accadere”, mi dice, guardandomi con il disprezzo penoso che si riserva ai pazzi. “Non so come funziona a Savona”, continua tra il divertito e il seccato, “qua noi non ci comportiamo così”. Mi ero illusa che tra Cip ci si parlasse, invece a quanto pare si tratta di entità solitarie, separate tra loro da un abisso ontologico di cui io, capra ignorante, non avevo neanche scorto l’ombra.

Lascio cadere l’argomento, leggermente turbata e, soprattutto, desiderosa di abbandonare al più presto alla sua scrivania lo stronzo che mi trovo davanti. Inizio a esporre i miei titoli di studio, tranquillamente, come una che parla a un impiegato che deve inserire quei dati in un computer. Il tizio mi sorride, bavoso, squadrandomi: “Perché fa così?”, mi chiede. E io, “cioè?”. “Perché ne parla così, senza valorizzarli. Lei deve valorizzarli, dimostrare energia, entusiasmo. Altrimenti non l’assumono”. “Scusi, ma questo non è un colloquio di lavoro”, dico, divertita e seccata a mia volta, “oppure lei mi sta offrendo un impiego e io non lo so?”. “E’ una simulazione di colloquio”, mi dice; poi, di fronte alla mia espressione sbalordita, si corregge: “è un colloquio di orientamento, però…”.

I ragazzi che hanno iniziato il colloquio insieme a me, nel frattempo, cominciano ad andarsene, salutati da impiegate gentili e solerti. Il tizio, invece, attacca la solita ramanzina sull’importanza di trovare i punti di forza, capire il mercato, sapersi proporre. L’incontro prosegue in questa modo: io che cerco di parlare razionalmente del mio curriculum e delle mansioni a cui posso ambire, lui che mi interrompe, mi sputa addosso consigli e giudizi di merito, mi osserva, mi sorride con il sorriso di chi è più potente.

La discriminazione è qualcosa di difficile da descrivere, perché non balza agli occhi, non risalta sullo sfondo. Se ci si finisce dentro, si capisce solo che la bilancia, a un certo punto, inizia a pendere da una parte che non è la nostra, senza che ci sia un vero perché. Si percepisce che il margine di movimento, per noi, è incredibilmente ridotto. Che ci troviamo in un luogo in cui l’unica mossa possibile per uscirne integri è ribaltare il tavolo.

L’impiegato del Cip voleva che facessimo il gioco “io sono il capo canuto (ma che ancora ci da) e tu la candidata che mi deve convincere”. A quanto pare, ero sufficientemente giovane e piacente da solleticarlo, e tanto bastava. Quando ho cercato di riportare la conversazione su binari ragionevoli, ha reagito sostenendo che io stavo “mettendo in dubbio le sue capacità professionali”, e mi c’è voluto un po’ prima che si decidesse a rivolgersi a me con un tono che, almeno alla lontana, corrispondesse al suo ruolo.

Ribaltare il tavolo, non ne ho avuto il coraggio. Ho cercato di liberarmi del tizio più in fretta possibile e sono corsa via, portando con me la rabbia e la frustrazione. Credo sia quello che accade, purtroppo, nella maggior parte dei casi. La discriminazione, come ho detto, di rado è qualcosa che si staglia sullo sfondo, ma anzi calza sorprendentemente bene al resto dell’ambiente, come una lampada su un comodino, una cravatta su un abito da uomo.

L’impiegato del Cip non è solamente un vecchio porco sessista: il suo sessismo è ragionevole, è adatto ai tempi, è violento ma di una violenza saggia, che tempra ed educa. E’ una copia – un po’ fuori posto, ma mica tanto – di quello che si trova ovunque, in ogni circostanza in cui è necessario che i rapporti di potere siano chiari, ben definiti, limpidi. Proprio come nel mondo del lavoro.

venerdì 4 marzo 2011

La foto più bella che abbia mai scattato

Ora che ho finalmente recuperato il cavetto della macchina fotografica, ecco una cartolina dalla manifestazione del 13 febbraio.


martedì 1 marzo 2011

L'umiltà, la dignità e il saper essere

“Oggi, nel mondo del lavoro non conta tanto il saper fare, quanto il saper essere”, ecco come la nuova docente del Cip presenta a noi, sparuta platea disorientata, il suo catechismo. E, davvero, la mole di raccomandazioni morali che mi è piovuta addosso da quando cerco lavoro mi sembra pari solo a quella che mi hanno inflitto a ridosso della cresima.

Chi pensa che il nostro sistema economico sia posseduto da una fredda anima calcolatrice si sbaglia. Al contrario, esso è fervente d’ideologia, un’ideologia che ha una morale precisa, capillare e gerarchizzata come quella di un esercito. Chi vuole farne parte deve sottoporsi al suo addestramento morale, senza il quale, come bene esemplifica la frase citata poco sopra, non viene considerato adatto.

Sii umile, è il primo comandamento, caldeggiato dal Ministro Sacconi in persona e, a scalare, da tutte le persone che ho incontrato che avevano almeno un piede nel campo delle risorse umane. La dignità sta nel fare bene il lavoro, non nella paga: mi disse un’impiegata del Cip della mia città, quando le raccontai che non avevo accettato di lavorare alla cassa di una pizzeria per tre euro l’ora.

In un mondo scolarizzato come il nostro (almeno per ora) e votato a un’economia dei servizi, la maggior parte delle persone che rispondono a un’offerta di lavoro sono, assai probabilmente, in grado di svolgere la mansione richiesta, a meno che non si tratti di un incarico veramente molto specifico. E’ un’ovvietà che nessuno, dall’alto delle mura della cittadella, si azzarda a pronunciare, poiché l’altra, pericolosissima verità è che non c’è posto per tutti.

Una fascia di popolazione giovane, istruita, frustrata e che va ingrossandosi di anno in anno è un fattore potenzialmente esplosivo, che bisogna trovare il modo di tenere ben lontano dalle fonti di calore; ma se gli si getta sopra acqua a sufficienza, è un ricco buffet.

Lo Stato getta acqua di continuo su di noi, ci irriga con master, working experience a finanziamento regionale, rimborsi spese, borse di studio. Rinunciando a gran parte della sua sovranità fiscale, permette ai nostri genitori di fornirci denaro a sufficienza per vivere senza un lavoro, perché la verità è che il lavoro per noi non c’è.

Alle aziende un alto tasso di disoccupazione giovanile conviene in molti modi, poiché crea un bacino inestinguibile da cui attingere personale colto e flessibile, giustifica la precarizzazione dei contratti di lavoro, costituisce una leva nei confronti delle istituzioni. Tutto ciò può funzionare, però, solo se si riesce a far accettare l’ideologia delle aziende, con tutti i suoi dettami morali, che è il presupposto senza cui, semplicemente, queste condizioni non sarebbero accettate. Ed ecco, quindi, il “saper essere”: saper essere affascinanti, dinamici, devoti, pronti al sacrificio, umili e miti. Non creare casini, dare il massimo, essere ambiziosi ma stare al proprio posto. Rincorrere il successo senza avere fretta, servire il superiore con piacere, non pretendere tutto ciò che ci è dovuto, perché stiamo facendo la gavetta e in ogni caso c’è chi sta peggio. Darsi da fare, soprattutto, fare stage, tirocini, corsi di lingue, di informatica, di marketing. Formarsi formarsi formarsi, per essere più appetibili e dimostrare di essere ansiosi di imparare e incapaci di ozio. Non lasciar passare il tempo, perché poi si invecchia.