giovedì 27 dicembre 2012

Non è una crisi per donne

C. fa l'educatrice. Lavora in una comunità per minori, in cui trovano accoglienza ragazzi con varie tipologie di problemi, tra cui anche quelli psichiatrici. La scure dei tagli è arrivata anche lì, in quel luogo che dovrebbe essere un rifugio, un'oasi di serenità per ragazzi e ragazze che hanno bisogno di riprendere fiato e di curarsi le ferite. Di regola, ogni educatore dovrebbe stare solo con due ragazzi alla volta, ma ora sono il doppio e a volte quelli con problemi psichiatrici sono la maggioranza. Qualche mese fa, uno di loro ha piantato una penna della spalla di C.

V. è un'assistente sociale, una di quelle che si prende in carico anche emotivamente i casi di cui si trova ad occuparsi, spesso senza riuscire a dare un vero aiuto. Di recente, i tagli hanno ridotto drasticamente il personale, e V. deve presentarsi in casa delle persone di cui si occupa (e per cui spesso riesce a fare ben poco) completamente da sola. Alcune di queste persone sono malate e disperate.

B. è un caso abbastanza tipico. Disoccupata, si ritrova a coprire i buchi del welfare in famiglia. Lavora instancabilmente, ogni giorno, ma non ha i soldi per andare via di casa e per farsi una vita tutta sua. Sperimenta con decenni di anticipo e senza la possibilità, prima, di costruire per sé, quello che vivono tante donne della generazione schiacciata tra i nipoti senza più asili e i genitori ormai vecchi.

Il capitalismo utilizza la discriminazione contro le donne per rendere più produttive tutte le forze lavoratrici. Lo fa sfruttando le donne in quanto donne dentro le fabbriche, approfittando della loro posizione di maggiore debolezza nella società per piegarle alle condizioni più brutali. Lo fa quando fa sì che, in quanto donne, si ripieghino sui ruoli più tradizionali, quelli della cura, che diventano dei ghetti di lavoro femminile sempre più svalutato, che può essere spremuto fino all'ultima goccia e infine lasciato al volontarismo e al coraggio di quelle che resistono. Lo fa esponendo le donne, senza alcuna remora, alla violenza, sul loro posto di lavoro, nelle strade sempre più affollate di uomini brutalizzati, o a casa, laddove ad attenderle ci sono mariti, padri, compagni, fratelli da cui non possono liberarsi se lo vogliono. La violenza maschile non ha di certo origine nel capitalismo, però peggiora ogni volta che le donne non hanno che la possibilità di raggiungere uno spauracchio di emancipazione. La violenza non avviene perché gli uomini si ribellano contro il fatto che le donne sono diventate più forti, ma perché approfittano del loro essere ancora più deboli, così come è sempre accaduto.

Il femminismo non è uno dei famosi "temi etici", non è una battaglia morale o semplicemente culturale, perché le pastoie che abbiamo legate ai piedi sono concretissime, possiamo quasi vedercele alle caviglie. Sono l'inesistenza di un lavoro degno di questo nome, sono i soldi che mancano, sono la cura e l'assistenza gettate sulle nostre spalle. I deliri di uno stalker integralista cattolico e di un prete misogino non sono pericolosi tanto per le parole che contengono, ma perché la Chiesa a cui appartengono è ancora più forte di noi.


venerdì 16 novembre 2012

La legalizzazione delle slot mascin

All'indomani di una giornata come quella dello sciopero europeo, la lavoratrice di tastiera si sveglia con il cuore intenerito dalla speranza. Ancora i piedi si muovono al ritmo della musica di stoviglie suonata da una band di educatrici precarie, e le mani frullano nella colazione come se volessero raccontare a tutta la cucina i dettagli di quanto accaduto.

Prima o poi però si torna al lavoro, al computer ormai bolso, appoggiato su due libri perché il contatto con il legno smaltato della scrivania non lo conduca oltre il punto di fusione; ai cataloghi di offerte di lavoro per cui non ho nessuna chance, recapitati ogni mattina dalla mia casella di posta e che una fitta di senso di colpa mi impedisce di etichettare come indesiderati; alle mail dei datori di lavoro che invece mi vogliono, sconosciuti che non sentirò mai parlare nella loro lingua madre e che in uno scarno inglese mi inviano gli elenchi di numeri e parole chiave che un bel momento fruttificheranno nel mio reddito.

Ultimamente le loro lettere si fanno più rade e io mi ritrovo a sentire la mancanza di loro in persona. Ne immagino le figure di giovani startupper, stagliate contro un tramonto mediorientale oppure fieramente sedute nei loro uffici, con maturità, nonostante i capelli ancora neri e le spalle snelle da bagnanti sudeuropei. Perché loro hanno un ufficio, a differenza mia. Devono pur avercelo un ufficio, un luogo in cui sono catalogate voci di spesa come la mia camera in affitto, le mie bollette, i pranzi e le cene. Una stanza con grandi finestre azzurre e mobili chiari per esprimere efficienza e per omaggiare la luminosa nazione virtuale da cui i committenti provengono. Il bianco è il colore di internet, come le mele smangiucchiate dei supporti di lusso, come i template raccomandati per veicolare i Vostri contenuti, come gli immensi spazi vuoti nei quali galleggia il ranking di un sito web. 

E nella povertà dei contatti persino una notizia comunicata per dire altro, per esplicitare il tema di un articolo da scrivere, diventa quasi un gesto di affetto. A dicembre la versione virtuale delle slot machine verrà legalizzata anche in Italia. Una notizia insulsa, persino dannosa, che però per me significa con ogni probabilità  un nuovo marzo lavorativo, lo scioglimento dei ghiacciai in cui al momento i soldi che potrebbero spettarmi sono intrappolati. So che potrei ritrovarmi a scrivere cataste di articoli con l'obbligo di utilizzare parole come "slot mascin" con la sh, "slot machines" con la esse, "slots machines" con la doppia esse, ma ugualmente sussulto come per un'endovena di entusiasmo. 


Essere freelance - non cominciate a balbettare dei "ma" e dei "però". Il mio è davvero un lavoro di scrittura ed è davvero un lavoro freelance, ma è anche, davvero, un lavoro idiota, privo di qualunque utilità sociale e anzi pure nocivo - vuol dire spesso avere un rapporto del tutto distorto con i propri datori di lavoro. I rapporti diventano allo stesso tempo personali e del tutto oscuri. La/Il freelance in molti casi vede solo una porta chiusa, decorata da un logo realizzato probabilmente da un altro freelance come lei/lui (l'annuncio su Odesk diceva così: "I need a logo designed around my company's name since that's my brand. It will need to be something trendy, modern, slick, with a presence. Good examples would be Kenneth Cole, Calvin Klein, Hugo Boss, Apple, etc... For reference please visit my site"). Il datore di lavoro (o il responsabile delle risorse umane) scrive gli ordinativi su dei foglietti che poi infila sotto la porta. Nei momenti vuoti, la/il freelance aspetta con i gomiti sulle ginocchia e immagina la stanza celata dalla porta. A volte sospetta che dietro il logo ci sia una vecchia scrivania di legno, con il computer appoggiato su due libri, proprio come la sua. 

La freelance è indotta a pensare di essere tutto sommato in una relazione di parità con il proprio datore di lavoro/committente. Dopotutto, dice a se stessa, anche io per lui sono qualcuno che sta dietro una porta chiusa. Ovviamente non c'è nessuna parità quando il lavoratore non ha il controllo sulla produzione, anche se la produzione è "immateriale". E chi deve inseguire la propria mesata articolo per articolo, briciola per briciola, non ha proprio il controllo di nulla, anche se lo fa "coi suoi tempi", "in autonomia".

Il datore di lavoro diventa semplicemente l'emissario di un'industria i cui unici recapiti conducono a palazzine fitte di nomi situate in qualche arcipelago tax free, oppure ancora a loghi, fotografati dallo spazio, incisi sul mondo perché il mondo stesso, per questi mostri, è solo una mappa da esplorare col mouse. Singoli che si relazionano con singoli, di fronte a un potere economico che fa di tutto per darsi alla macchia, per diventare idea, un qualcosa che si può contestare ma non colpire. La rubrica dei contatti come strumento di lavoro, lo strumento più sterile e innocuo che ci sia. La rete disarma i lavoratori, li fa passare nel tritacarne della produzione più inutile e seriale, riducendoli in poltiglia incapace di esprimere alcunché all'interno dei rapporti economici.

Alcuni si accodano ai megafoni dei freelance d'alto bordo, ritagliandosi un ruolo simbolico, di denuncia. Alcuni inseguono altre lotte. Quasi tutti rimangono comunque dietro quella porta chiusa, a masticare ipotesi tra una keyword e l'altra, inumiditi dal loro lavoro di scantinato.

Qui si discute di umidità e di molte altre cose.

mercoledì 31 ottobre 2012

L'assassinio di Anteo Zamboni

Oggi, 86 anni fa, Anteo Zamboni veniva assassinato. Su questo bambino morto a Bologna nei primi anni del fascismo si sa molto poco. Si sa come è morto, ma non si sa perché. Si sa moltissimo di suo padre, delle sue conoscenze potenti, della Bologna di allora e si sa qualcosa persino sugli intrighi più neri nel nero dei battibecchi familiari tra il fascismo agrario padano - tutto muscoli e omicidi - e quello "normalizzatore" delle istituzioni. Ma di lui non si sa quasi nulla, e questo perché Anteo era, appunto, un bambino, un essere umano che ancora non aveva avuto tempo di lasciare una grande traccia di sé.

Nel bellissimo saggio "Attentato al Duce", Brunella della Casa, dell'ISREBO, ricostruisce quanto avvenuto attorno e durante l'attentato per cui Anteo è stato incolpato e istantaneamente ucciso, fornendo anche interessanti ipotesi sulla vera matrice di quell'evento e sul braccio che effettivamente sparò. Ipotesi che cercano di rendere giustizia a una vita stroncata a 15 anni, la vita di un adolescente che non era neanche ancora un ragazzo, che nel giorno della sua morte andò alla parata a vedere il Duce con le spille arrugginite di una vecchia squadra di calcio, trovate nel giardino di casa, appuntate sulla camicia nera da balilla. Assai poco probabilmente un anarchico, molto più probabilmente un bambino.

A quattro anni dalla Marcia su Roma Mussolini aveva deciso di celebrare l'anniversario di un evento tanto importante a Bologna, uno dei luoghi che meglio rappresentavano la sconfitta delle lotte operaie e bracciantili da parte del fascismo e città del quasi podestà Arpinati (venne nominato un paio di mesi dopo), esempio dello squadrismo che sapeva farsi istituzione. I festeggiamenti avvennero in una città passata al pettine della repressione, in cui si era provveduto a incarcerare preventivamente tutti coloro che erano ritenuti in odore di antifascismo. Circa duemila persone. Il Duce aveva seguito un rigido programma di inaugurazioni, ricevimenti, cene, sfilate a cavallo e la sera di quel 31 ottobre si avviava verso la stazione, tra due ali di folla che lo ammiravano mentre imboccava via Indipendenza sull'auto scoperta.

Nell'arco dei 12 mesi precedenti, Mussolini era sopravvissuto a quattro attentati. Erano oltre 3000 i miliziani mobilitati in città per presiedere ad ogni sua apparizione, insieme a migliaia di uomini tra soldati, carabinieri e membri del servizio d'ordine del partito. In quei giorni, gli squadristi portavano in giro per Bologna un manichino impiccato sovrastato dai nomi dei tre attentatori e dell'attentatrice che fino ad allora avevano cercato di uccidere il Duce: Zaniboni, Cappello, Gibson, Lucetti. Le voci che parlavano di un nuovo attentato in preparazione in città erano infatti molte.

Per colpa di uno sparo

All'angolo di via Rizzoli, mentre l'auto rallenta, un colpo di pistola attraversa il bavero della giacca del Duce, scava la stoffa della fascia che porta al petto e fa entrare la luce nel cilindro del sindaco Puppini, al suo fianco sul sedile. Mussolini è voltato nella direzione da cui arriva il colpo e vede distintamente il suo attentatore, che ha superato il cordone di sicurezza che tiene a distanza la folla. Lo descriverà come un uomo ben diverso da Zamboni, il quale invece, in pochi secondi, viene afferrato e accoltellato dagli squadristi per poi essere lasciato già morto in pasto alla folla, che gli rompe i denti, lo morde, lo colpisce, lo strangola.

Nei giorni seguenti, Pio XI dichiara che è ormai evidente la protezione accordata da Dio al Duce. Decine di messe, celebrate da vescovi e cardinali, risuonano nelle basiliche per ringraziare l'Onnipotente della grazia concessa a Mussolini. Neanche una parola viene spesa per Anteo. Di lui, in effetti, quasi nulla giunge al pubblico. La pubblicazione di tutti i giornali di opposizione viene sospesa. Non si deve sapere nulla delle rappresaglie che i fascisti stanno compiendo in tutto il paese e che vanno avanti per giorni fino a quando non è Mussolini stesso a fermare il pogrom. Per difendersi da una di quelle rappresaglie, Emilio Lussu uccide un fascista e verrà condannato al confino a Lipari, da cui poi fuggirà.

Vengono sospesi tutti i passaporti e sono sciolti tutti i partiti, le associazioni e le organizzazioni che si oppongono al fascismo. Viene istituito il Tribunale per la Difesa dello Stato, che applica il codice militare di guerra. E' dichiarato decaduto il mandato di tutti i deputati aventiniani, compresi quelli che, come i comunisti, erano ritornati in Parlamento. Gramsci è arrestato.

Anteo

Nel frattempo a Bologna tutta la famiglia di Anteo fino al secondo grado di parentela viene messa in carcere. Il padre è un ex anarchico da tempo convertito al fascismo, che ha fatto lo stesso percorso di Arpinati e che per questo lo conosce bene. E' convinto di poter essere scagionato in tempi brevi insieme a tutta la sua famiglia grazie all'intervento dell'amico potente. Ma non si può pensare che ad attentare alla vita del Duce sia stato un ragazzino di 15 anni, peraltro, a sentire chi lo conosce, nemmeno molto sveglio. Si da la colpa alla famiglia, nonostante non ci sia alcuna prova di un suo coinvolgimento e un magistrato provi anche a farlo notare. Il padre e la zia di Anteo vengono condannati a 30 anni di prigione. La giustizia fascista si accanisce particolarmente contro Virginia, la zia, che poteva vantare un passato politico assai meno compromettente di quello del padre ma che era una donna nubile, forte, oggetto di maldicenze di ogni genere.

E' un nemico troppo bambino Anteo. Non abbastanza da essere risparmiato dai pugnali, ma troppo per attribuirgli per intero la grandezza di un gesto omicida nei confronti del Duce. Non vengono nemmeno rese pubbliche le sue fotografie, per non mostrare, accanto agli elogi della giustizia sommaria e della repressione politica, un volto che ancora non accenna all'età adulta.

Le indagini condussero a stabilire la presenza, sul luogo dell'attentato, dell'ardito lombardo Albino Volpi, fascista particolarmente sanguinario che fu tra gli esecutori materiali dell'omicidio di Matteotti. Molte testimonianze sostenevano che fosse stato proprio lui a pugnalare per primo Zamboni, per poi defilarsi. Si iniziò a parlare esplicitamente di complotto interno al fascismo, un complotto che faceva capo a Farinacci, che aveva come braccia gli arditi milanesi e come capro espiatorio Anteo, non si sa se coinvolto per puro caso o se invece convinto a partecipare. Le indagini furono bloccate direttamente dal vertice dello stato. Del resto, il regime aveva avuto enormi vantaggi dall'attentato ed era giunta l'ora di fare la pace con quei camerati turbolenti che in fondo nessun danno avevano fatto al fascismo, ma solo bene.

In occasione del decimo anniversario della Marcia su Roma, Virginia e Mammolo chiesero la grazia e questa volta Arpinati prese le loro difese, riuscendo a convincere Mussolini. Subito la famiglia Zamboni iniziò ad adoperarsi per dare ad Anteo una sepoltura che finalmente ne riabilitasse la memoria. Fino ad allora infatti il corpo del ragazzo era rimasto in un terreno sconsacrato fuori dalle mura della Certosa di Bologna. Ma si dovette attendere la liberazione perché fosse deciso di spostare i suoi resti. E con essi si spostò anche la memoria. Anteo non era più la vittima innocente che i familiari avevano sempre descritto, ma divenne un partigiano, il primo partigiano di Bologna, membro di quella che Togliatti definì la "Resistenza silenziosa". Così è ricordato sulla targa che si trova affissa su Palazzo d'Accursio.

Ben pochi furono, tuttavia, coloro che furono disposti ad accogliere tra le loro fila la figura ambigua di Anteo, anche fra gli anarchici. Tra gli antifascisti, prevalse sempre l'idea di un ragazzo trovatosi in mezzo a giochi troppo grandi, spazzato via con pochi colpi di coltello in nome di necessità maggiori, legate o alle ragioni del regime (in caso si sostenga l'ipotesi di un falso attentato, architettato per mettere finalmente al bando l'opposizione) o a quelle di una sua dissidenza interna (e in questo caso l'attentato è vero). Solo in tempi più recenti si è iniziato a concepire la possibilità di un giovane uomo pienamente padrone del suo gesto, compiuto in fedeltà a un ideale politico o al contrario in ribellione contro la famiglia e alla ricerca di un'affermazione di sé.

Di certo c'è il fatto che di Anteo Zamboni, assassinato ancora bambino dai fascisti, non rimangono parole, né quasi ricordi. Niente oltre a qualche quaderno di scuola e a una manciata di fotografie, la maggior parte delle quali lo ritraggono già morto*. E che qualunque parola verrà detta su di lui, non sarà mai sua.



*potete trovarle con una velocissima ricerca in rete, ma se siete impressionabili ve le sconsiglio

venerdì 26 ottobre 2012

Prendere atto

Il disoccupato accanto a me è uno che le ha provate davvero tutte. Ogni pista di questa valle desertificata lui l'ha percorsa, più e più volte, medicando il fatalismo lungo la strada come se fosse una caviglia dolorante.

Mi dice: "Bisogna prendere atto che questa insicurezza, questa instancabile indecisione, è uno dei modi con cui ci annichiliscono e ci impediscono di agire. Ci siamo fatti convincere di essere prima di tutto individui, e quindi portatori di diritti inalienabili che ci rendono tutti uguali e allo stesso tempo legittimati ad avere ciò che meritiamo, che è sempre più degli altri. In realtà non siamo per nulla tutti uguali, c'è chi nasce col culo parato e chi no, e così i diritti rimangono formule scritte su un foglio di carta. E nella quasi totalità dei casi nemmeno abbiamo alcuna qualità che ci permetterebbe di salire con qualche ragione sul carro che tanto sogniamo, perché non capiamo nulla di nulla e vivacchiamo nella più ingiustificabile illusione.

"Quella stessa illusione che ci fa maledire l'ingiustizia ogni volta che non ci sentiamo al centro del mondo, che ci fa costruire club pieni di parole d'ordine anche quando ci proclamiamo liberi e libertari; oppure che ci conduce in un isolamento appestato di amarezza, perché nessuno sa capirci e quindi nessuno ci merita; oppure ancora che ci fa sentire inadatti, sempre, come se le sorti di una battaglia dipendessero dalla nostra eloquenza.

"La politica non è qualcosa che si fa con lo spirito di chi vorrebbe allungarsi in ciabatte in ogni angolo del mondo, come se fosse a casa propria. Non adesso. Adesso la si fa con le scarpe robuste e con la paura del futuro negli occhi, accesa come una lanterna.

"Sei rimasta delusa e ora non sai a che santo votarti. Ma è solo perché ti eri illusa che qualcosa fosse davvero sbocciato al di fuori di quella calce avvelenata da cui tu stessa provieni e dalla quale pensavi di esserti allontanata. Non c'è niente al di fuori di quello, niente che non abbia una natura inquinata, infiltrata dal mormorio incessante del capitale, da quella voce che ti vuole sempre diverso e migliore, mai sorella o fratello ma al massimo capace di fraternità.

"Non c'è niente, nemmeno l'idea migliore, che non abbia anche un lato meschino, avido, egoista. L'essere umano cresce piantato nell'ignoranza e nel pregiudizio, e da quel genere di letame non nascono certo generose piante da frutto, con le braccia robuste parallele al terreno. Gli orti de Il ventre di Parigi, che accoglievano la merda della città rastrellata agli angoli dei mercati per trasformarla in cibo fresco e pulito, non esistono da nessuna parte.

"Quello che esiste è invece una truppa con le armi spuntate e la sbornia della barbarie sempre nel sangue. E' questo il nostro tempo, è questo che siamo, e tu non riesci a ricordartelo".

lunedì 22 ottobre 2012

WWWomen

La rete è quel luogo straordinario in cui anche le teorie più bislacche possono trovare sostegno in un blog del Fatto Quotidiano. Giampaolo Colletti appartiene proprio a quella squadra di blogger, ed ha un'idea a dir poco fantasiosa che riguarda le donne e la rete stessa. A volte verrebbe da credere a quanti, tipo Casaleggio, sono posseduti dall'immagine di un world wide web dotato di una propria volontà e di una vanità da divo dell'infotainment, dato che si ottiene tanto più spazio quanto più gli si liscia il pelo. La realtà è che parlare in modo acritico e superficiale della rete in rete equivale, esattamente come accade in televisione, a raggiungere il punto zero dei contenuti, il nulla assoluto, che è proprio il risultato che molte imprese digitali, come ad esempio quelle per cui lavoro, si pongono. Pare infatti che i link sponsorizzati si incollino alla perfezione attorno ai testi che non parlano di nulla.

Tornando al Fatto Quotidiano e a Colletti, mi sono imbattuta in un post che, data la mia posizione lavorativa di picchiatrice di tasti sul web, non poteva non incuriosirmi: "Donne più disoccupate degli uomini, non in Rete".  Qui si sostiene che nella crisi le donne se la cavano di gran lunga meglio degli uomini, poiché il loro tasso di occupazione nei primi due semestri del 2012 è aumentato del 1,3%. L'autore tralascia di citare il fatto che l'Italia è agli ultimi posti in Europa (con l'unica eccezione di Malta) per occupazione femminile, che le donne in età lavorativa che effettivamente lavorano nel nostro paese sono meno del 50% e che l'Italia ha ancora un primato europeo, quello della maggiore differenza tra il tasso di occupazione maschile e quello femminile. Dettagli. La crisi è un momento d'oro per le donne, che a causa di qualche misterioso incantesimo finiscono per trovare lavoro in un momento in cui il lavoro non c'è.

L'incantesimo, secondo Colletti, è la creatività delle donne, il loro istinto di startupper nate, la loro capacità di creare prodotti carini e sfiziosi. A riprova di ciò, cita il caso del sito culinario Giallo Zafferano. Ah che meraviglia queste donne che inventano, creano, si adattano alla nuova congiuntura economica di disgrazia. Mica come gli uomini, che rimangono aggrappati all'idea del posto fisso. E' la narrazione del governo tecnico, che magnifica le gioie del lavoro iper precarizzato perché è moderno, dinamico, giovane. Persino donna. Eccolo il nuovo che avanza.

Ed è proprio questa infatti l'ossessione di Colletti, il quale ha avuto la pensata di fondare un progetto di studio e un sito, WWWorkers,  per parlare dei lavoratori e delle lavoratrici (soprattutto delle lavoratrici, dice lui) che decidono di liberarsi di quella noia mortale che è il posto fisso per imprenditorializzarsi e seguire le loro passioni. Lui lo dice davvero! Sì vabbé, qualcuno magari è anche co.co.pro, però la maggior parte sono di sicuro lavoratori a tempo indeterminato, che si sono liberati della schiavitù delle quaranta ore, delle tredicesime e delle quattordicesime, dei congedi familiari e di tutte le altre tutele, per abbracciare l'ignoto. E' questo lo spirito giusto per uscire vivi dalla crisi. Si salveranno gli ottimisti e gli avventurosi, e alla fine sarà un mondo migliore.

La prova di questa tendenza e del fatto che le donne sono in prima fila nel cambiamento, sta nel fatto che le lavoratrici autonome qui da noi sono il 16% del totale, contro una media europea del 10%. Qui il termine "autonome" sembra proprio andare a braccetto con l'emancipazione delle donne, laddove emanciparsi vuol dire lavorare in proprio. Nessuna lampadina che si accende quando il dato sulle lavoratrici autonome italiane viene messo a confronto con quello degli stipendi medi nel nostro paese, che sono i più bassi d'Europa per tutti, ma che per le donne sono il 20% in meno di quelli degli uomini. Nemmeno nominata la Partita IVA, che è il titolo meno romantico delle lavoratrici e dei lavoratori autonomi, una formula che ormai anche nel mainstream non evoca di certo più la libertà e la realizzazione di sé.

Tuttavia, Colletti continua ad osservare dalla sua finestra la brulicante vita della rete, con il sorriso sulle labbra, lieto di scaldarsi il cuore con la certezza che quel fermento vitale, finalmente, stia conducendo le donne all'emancipazione.

martedì 16 ottobre 2012

My way

Di recente mi sono ritrovata a pormi qualche domanda su questo blog. E dalle domande sul blog sono arrivata in un battito di ciglia ad altre domande, immense e schiaccianti. Sì perché in origine questo progetto voleva realizzare una specie di minuscola operazione di debunking sul mondo del lavoro, a partire dalle mie esperienze personali, cercando di rendere esplicite la violenza e la discriminazione con cui la logica di quel mercato agisce, in particolare sulle lavoratrici.

Solo che io da quel mercato ora sono uscita. O meglio, sono rimasta, ma nascondendomi, facendomi piccola piccola, guadagnando (forse) quello che mi basta per campare interagendo il meno possibile con le sue dinamiche. I capi si trovano lontano, non li ho mai visti. Il mio reddito è appeso a una manciata di indirizzi e-mail. Lavoro da casa, attaccata al computer. Guardo dalla finestra un cortile su cui di giorno si affacciano solo pensionati e studenti. Io non sono nessuno dei due, e anche là dove si trovano tutti gli altri, io non ci sono.

Il futuro è un elenco di voci appuntate dove capita: sull'agenda, sul calendario, nella casella di posta, a volte persino scritte sul dorso di una mano. Le cancello di giorno in giorno, e ogni voce cancellata è un mattoncino del mio prossimo mese. E' tutto qui. Sono una disoccupata con un reddito e un impegno quotidiano al computer. Il mio lavoro non significa nulla, è tempo nascosto alla vista, che serve solo all'assurdo proposito di farmi superare una crisi economica di cui nessuno può prevedere gli esiti e nella quale io, intanto, invecchio.

Penso che tutto sommato non sia poi così strano quello che mi capita. Nel 1973, quando Tina Anselmi fece rientrare il lavoro a domicilio nei contratti nazionali di categoria, erano un milione le donne (perché si trattava praticamente solo di donne) che lavoravano da casa. Producevano di tutto: dai circuiti elettronici ai maglioni. Oggi non è molto diverso. Noi lavoratrici e lavoratori a domicilio del terzo millennio assembliamo testi della più varia natura, dalle traduzioni scientifiche agli articoli di promozione turistica. Siamo pagati a cottimo, proprio come in fabbrica. Noi non rischiamo di ritrovarci con le dita mozzate e a fine giornata non abbiamo le braccia distrutte e gli abiti lerci. Allora diciamo di essere freelance, aggrappandoci a un treno che sfreccia lucido nel presente e che dovrebbe in teoria essere pieno di giornalisti gira mondo, professionisti strapagati del marketing, creativi digitali. In realtà però su quel treno ci siamo quasi solo solo noi. E il bello è che in moltissimi casi quello che produciamo, con la nostra fulgida mente di laureati, dura meno di un maglione. Se siamo fortunati, un paio d'anni.

E' un lavoro da imboscati, che ci toglie dalle code davanti alle agenzie interinali come un tempo si sfuggiva alla leva obbligatoria. Nascondersi come unica soluzione nei confronti di un destino di disoccupazione. E quando ci si nasconde, è ben poco quello che si può fare. Sono pochi i compagni che riusciamo a vedere, e meno ancora quelli con cui ci troviamo a portata di voce. E' questa la posizione in cui mi trovo. E un po' me la sono persino scelta, per vigliaccheria e perché non ne potevo più. Ero stanca di sentirmi dire che sono troppo vecchia, troppo bassa, troppo scolarizzata, troppo inesperta. Non ne potevo più di sentirmi affibbiare mancanze che in realtà sono quelle di un intero sistema economico. Ma come si può scrivere da un nascondiglio? Si può? Io ci proverò, quando avrò il tempo, le energie, le idee. E se quello che verrà fuori apparirà pallido e mezzo asfissiato, come se fosse appena sbucato fuori da un cunicolo scavato nel terreno, beh perdonatemi.

giovedì 27 settembre 2012

Inshallah ça va

L'amico che lavorava con me ha ormai la barba lunga e mormora formule di ringraziamento a Dio ad ogni manciata di parole. Ha preso qualche chilo e questo è un bene. Suo padre è morto qualche settimana fa, ma senza permesso di soggiorno non può muoversi dall'Italia. Anche i soldi sono un problema, ma inshallah per quelli gli strozzini hanno tempi più brevi.

Per calmarsi prega e snoda con le dita la lunga barba color cenere. Sono fortunato, dice, perché ero perduto mentre ora seguo la via di Dio. Non eri perduto, vorrei dirgli. Eri solo povero e lo sei anche ora. Povero, straniero e solo, escluso dai mestieri per cui hai studiato, quelli che conosci e per cui hai talento. Quei mestieri puoi solo farli gratis, o al massimo in cambio di un mazzo di buoni pasto da quattro euro e cinquanta. Buoni pasto che ti aiutano a malapena a mangiare, e che di certo non ti faranno avere il permesso di soggiorno per andare sulla tomba di tuo padre.

Se ci fosse una giustizia - gli dico indicando l'imponente palazzo razionalista nel quale il mio amico trascorre tutti i suoi pomeriggi - tu lavoreresti lì dentro. Sporgendosi dalla facciata, un'enorme bandiera rossa sussulta cercando di afferrare un autobus immobile alla fermata. La giustizia non c'entra, mi risponde l'amico con aria rapita, è qualcun altro che decide. La crisi crea interessanti cortocircuiti. C'è chi tira in ballo Dio per spiegarsi la propria esclusione da un lavoro che già fa e che riguarda un'organizzazione ancora in teoria profondamente venata di marxismo.

Quando viene il mio turno di raccontare, dico che sono tutto sommato felice perché non lavoro più tutti i giorni e torno finalmente a scoprire i fine settimana. In realtà mi vergogno molto a dirglielo, perché lui lavora senza giorni liberi, né ferie, né malattia da quasi sette anni. Ma non importa, mi dice. Io sono fortunato.

lunedì 20 agosto 2012

Femminismo, incubi virili e incredibili paralleli

Quando una lettura capita proprio a fagiolo. Tratto da "Donne, resistenza e rivoluzione", di Sheila Rowbotham.

"Durante la comune un corrispondente del Times si infiltrò in un circolo femminile. La stanza era piena di donne e di bambini «del più infimo strato sociale». Le donne indossavano «casacche disordinate» e «in testa copricapi bianchi ornati di gale». Al fondo della stanza c'era un tavolo coperto di giornali e libri, e dietro di esso giovani cittadine indossavano fasce rosse. Una giovane parlò sulla necessità di difendere la rivoluzione. Il giornalista non si interessò di quel che stesse dicendo ma del fatto che era «giovane e graziosa». Ma colse negli occhi di lei uno sguardo che gli diede la sensazione che «non gli sarebbe piaciuto essere suo marito». L'oratrice successiva dall'aspetto abbastanza rispettabile ma «divagante e inconsistente» parlò del ruolo della donna nella comune e della rivoluzione del 1789 e poi criticò il clero. Un'altra criticò severamente lo sfruttamento dei poveri da parte della società. Il cronista del Times giudicò il suo discorso «vago e pieno di inutili ripetizioni»."


venerdì 27 luglio 2012

L'Ilva, l'Acna


Durante tutta la mia infanzia, il fiume è stato rosso. Rosso e morto, come se del sangue fosse caduto in una pozza di acqua arrugginita. Non ci sono molti fiumi in Liguria, anzi al di qua delle montagne non ce n'è per niente. Solo dei torrenti stagionali i cui letti fanno in tempo a riempirsi di erbacce e le erbacce a seccare, prima che i rii dell'entroterra portino acqua a sufficienza perché questa possa percorrere tutto il tragitto fino al mare. Capita poche volte l'anno.

Al di là delle montagne invece di fiumi ce ne sono. Da queste parti si chiamano tutti Bormida, e sono di genere femminile. L'acqua gocciola verso la pianura, immaginando la dolce inerzia della piatta valle sterminata, e nel frattempo le montagne si seccano come spugne appese al sole. Di qua l'arsura annerisce i tronchi degli alberi, che sembrano fatti di carbone vivente. Di là le cortecce si allargano sottili e il mais fa ciondolare al vento la sua molle testa piumata.

Il mais che beveva la Bormida di Cengio però per molto tempo è stato un mais speciale. Gli animali che lo mangiavano alla lunga cominciavano a trasudare un odore strano, una puzza di ciminiera che restava nella carne e finiva in bocca alle persone. Il vino sembrava un siero velenoso, il decotto di qualche antico filosofo suicida appena attraversato dall'aria stantia delle cantine. I ghiaccioli che si allungavano dalle pareti di roccia erano proibiti ai bambini, né si poteva andare a giocare sulla riva del fiume gelato. E questo perché c'era l'Acna, la fabbrica che i miei genitori mi avevano insegnato a odiare, ma di cui non dovevo parlare mai con le altre persone del paese.

Gran parte del paese lavorava all'Acna, scoprii quando si decisero a dirmi che in quella fetida città di casermoni davvero ci lavorava qualcuno. Di colpo nella mia mente la gigantesca macina di melme terrificanti si popolò di esseri umani, e fu una scoperta spaventosa. Ne conoscevo persino alcuni, appresi. Da allora per anni li guardai come se nascondessero un orrore segreto, una complicità contaminante con il mostro. "Lo fanno per guadagnarsi uno stipendio", mi dicevano i miei. Ma io, che non avevo ben chiaro il vincolo di necessità tra il lavoro e il denaro e tra il denaro e le cose, continuavo ad essere ripugnata da quelle persone all'apparenza tanto normali.

Poi l'Acna si è spenta, e i suoi spurghi di rosso raggrumato hanno smesso di squagliarsi nel fiume. Sotto al ponte, in un punto in cui l'acqua è più bassa e la corrente fa appena il solletico ai sassolini sul fondo, sono persino arrivati dei cigni e dei germani reali. Animali che trascorrono tutta la loro esistenza con il ventre a mollo e le zampe a pedalare sott'acqua. Prima che scoppiasse questa primavera di piedi palmati - anche sta volta l'ho scoperto dopo - a Cengio c'è stata una specie di guerra. Gli operai bastonavano gli ambientalisti, i medici abbandonavano i malati e i contadini piangevano sulle loro viti al cromo. La fabbrica chiuse dopo sessant'anni di proteste, tribunali, botte, minacce, attentati e centinaia di morti per cancro, in larga parte operai.

Per cento anni, un virus ha abitato nei nervi degli abitanti della valle, operai e non. Stava accucciato al riparo, come una vipera nell'ansa di un fiume, per poi schizzare fuori a fiammate, un fuoco di Sant'Antonio, doloroso e sfiancante, pronto ad aprire la porta ad altre malattie ancora più incurabili. Gli unici che non erano malati erano gli stessi che per tutto il tempo avevano continuato a spalmare i marciapiedi di bava infetta. Qualcuno è passato per il carcere, qualcuno si è sparato un colpo prima che lo prendessero, la maggior parte è invecchiata lontano, senza un prurito di colpa.

Oggi il virus ha lasciato la valle e la Bormida di Cengio. Si è estinto, come si stanno estinguendo gli operai dell'Acna. Vecchi, e in tanti malati. Di questa malattia rimangono altri ceppi, che incendiano intere città. Prosperano nella diossina, succhiano l'arsenico e il cadmio dalla rugiada e dall'umidità del vento, ingrassano dove il mare è povero di pesci e la terra da frutti immangiabili. Più l'acqua è spessa di olii e l'aria è pesante di scarichi, e più loro galleggiano leggeri, sparpagliandosi come pollini maturi. Dove c'è la miseria e i campi sono appestati, i virus scalpitano nelle ventiquattrore in cui li tengono rinchiusi prima di liberarli tra la folla. E hanno effetti anche sulle fragili intercapedini della mente, creando solidarietà impensabili come quella tra operai e avvelenatori, tra intossicati e utilizzatori di armi chimiche. Ogni volta che coppie di mani si stringono alle spalle di una intera città, i virus hanno brividi di gioia. Quando si firmano concessioni, accordi, patti, finti risarcimenti, loro partoriscono nuovi venuti.

A Cengio il fuoco è passato e il fiume è pulito, ma la valle è persino più povera di prima, povera com'era nei secoli lontani, precedenti alla fabbrica. I veleni sono stati rinchiusi e placati, ma le vigne non sono tornate. Nessuno comprerebbe il dolcetto della Val Bormida. Il virus lascia delle cicatrici incancellabili, sfregia i volti e marchia le colline. A un certo punto, penso, ci si scorderà dell'Acna.  

venerdì 13 luglio 2012

I giornalisti italiani e la Tunisia

E' l'ennesimo caso mediatico che vede coinvolta una donna bianca e un uomo non-bianco da quando tutti i maggiori giornali e i maggiori partiti hanno scelto di sfruttare l'atavico incubo del colonizzatore per attirarsi pubblico. Parlo di caso mediatico perché del caso in sé, dopo le ultime uscite della procura, non si capisce nulla. In ogni caso la povera ragazza - delle cui abitudini sessuali nel remoto continente di provenienza sembra strano che non abbiano ancora pubblicato accurati reportage. Ma forse è perché le ore di viaggio sono tante e nessun inviato del Corriere è ancora atterrato - ha tutta la mia solidarietà.

Ebbene, sembra proprio che tra i giornalisti italiani e la Tunisia sia successo qualcosa. La strage di Erba fino ad ora è stato l'esempio più eclatante di tale patologia, ma anche questa schifosa vicenda non scherza. Oggi, dopo la lettura dell'ultimo articolo del Corriere, ho deciso di fare un piccolo sondaggio, non molto originale, ma che è riuscito lo stesso a stupirmi.

Nell'articolo del Corriere sopra citato, la parola "tunisino" compare 7 volte, accompagnata anche da un "immigrato". Nel frattempo, la parola "uomo" è usata solo 3 volte. Repubblica si comporta in modo più politicamente corretto, e inanella "solo" 5 riferimenti alla nazionalità dell'uomo. Ma il vero apice si raggiunge con i lanci d'agenzia di AGI e ANSA. La prima utilizza la parola "tunisino" per ben 3 volte in un totale di 111 parole, la seconda arriva allo stesso risultato (in un caso "tunisino" è sostituito con "nordafricano") in sole 98 parole. Neanche i miei datori di lavoro chiedono ai loro scrittori SEO di inserire in un articolo la stessa keyword con una simile frequenza.


Che cosa suscita la psicosi della Tunisia negli organi di stampa italiani? Forse quella minacciosa sillaba iniziale "TU", così dentale, che collega il nome del paese sull'altra sponda del Mediterraneo a termini quali "tumore", "tuono", "turpe". A pensare proprio male male verrebbe da dire che quella sillaba forse solletica anche un inconscio desiderio di identificazione.

Oppure più realisticamente si tratta della visione risorgimentale (ah i 150 anni...) della Tunisia come di un giardino sottratto al nostro condominio dai perfidi vicini francesi, con in più l'umiliazione di annusare dai nostri terrazzi il profumo dei loro barbecue estivi. Terra che ci sarebbe spettata, ai tempi, e che è rimasta un luogo agognato, su cui mai i bravi italiani sono riusciti a stabilire il loro ordine, e che è rimasta un paese insubordinato, mai ridotto all'obbedienza verso i Savoia né verso il fascismo. "Tunisia" allora diventa sinonimo di paese traditore, abitato da genti incolte che avrebbero potuto addomesticarsi al nostro benevolo dominio di fratelli maggiori, bianchi e cattolici, ma che per qualche motivo incomprensibile hanno scelto di non farlo.

Oggi, la Tunisia è addirittura un paese che si è liberato da sé da un dittatore, contravvenendo a tutte le regole non scritte della diplomazia intercontinentale. Un luogo in cui orde barbare hanno sradicato un padrone senza bisogno di cacciabombardieri decollati dalle nostre illuminate coste, e così facendo hanno sguarnito i confini settentrionali, come per un perfido scherzo, come in quel programma televisivo in cui il VIP di turno si ritrova chiuso in una stanza insieme a una tigre. Che pena che ci fa, quel miliardario tutto preso a sudare di paura di fronte al gigantesco felino. Che pena.




lunedì 9 luglio 2012

Una poesia che dice davvero tutto sulle Langhe

Antenati, di Cesare Pavese

Stupefatto del mondo mi giunse un'età
che tiravo dei pugni nell'aria e piangevo da solo.
Ascoltare i discorsi di uomini e donne
non sapendo rispondere, è poca allegria.
Ma anche questa è passata: non sono più solo
e, se non so rispondere, so farne a meno.
Ho trovato compagni trovando me stesso.

Ho scoperto che, prima di nascere, sono vissuto
sempre in uomini saldi, signori di sé,
e nessuno sapeva rispondere e tutti erano calmi.
Due cognati hanno aperti un negozio - la prima fortuna
della nostra famiglia - e l'estraneo era serio,
calcolante, spietato, meschino: una donna.
L'altro, il nostro, in negozio leggeva romanzi
- in paese era molto - e i clienti che entravano
si sentivan rispondere a brevi parole
che lo zucchero no, che il solfato neppure,
che era tutto esaurito. E' accaduto più tardi
che quest'ultimo ha dato una mano al cognato fallito.
A pensar questa gente mi sento più forte
che a guardare lo specchio gonfiando le spalle
e atteggiando le labbra a un sorriso solenne.
E' vissuto mio nonno, remoto nei tempi,
che si fece truffare da un suo contadino
e allora zappò lui le vigne - d'estate -
per vedere un lavoro ben fatto. Così
sono sempre vissuto e ho sempre tenuto
una faccia sicura e pagato di mano.

E le donne non contano nella famiglia.
Voglio dire, le donne da noi stanno in casa
e ci mettono al mondo e non dicono nulla
e non contano nulla e non le ricordiamo.
Ogni donna c'infonde nel sangue qualcosa di nuovo,
ma s'annullano tutte nell'opera e noi,
rinnovati così, siamo i soli a durare.
Siamo pieni di vizi, di ticchi e di orrori
- noi, gli uomini, i padri - qualcuno si è ucciso,
ma una sola vergogna non ci ha mai toccato,
non saremo mai donne, mai ombre a nessuno.

Ho trovato una terra trovando i compagni,
una terra cattiva, dov'è un privilegio
non far nulla, pensando al futuro.
Perché il solo lavoro non basta a me e ai miei;
noi sappiamo schiantarci, ma il sogno più grande
dei miei padri fu sempre un far nulla da bravi.
Siamo nati per girovagare su quelle colline,
senza donne, e le mani tenercele dietro la schiena.

giovedì 28 giugno 2012

Breve guida alla scoperta dei maschilisti

Ecco una breve guida che aiuterà le lettrici e i lettori a orientarsi nel vasto mondo del maschilismo, per imparare a riconoscere il maschilista nell'ambiente naturale e per evitare di incorrere in fastidiosi misunderstanding che potrebbero condurvi a fraintendere la natura dell'essere che vi trovate davanti.

Innanzitutto un punto metodologico: il maschilista ama esprimersi con i gesti. Il suo particolare linguaggio corporale è inequivocabile ed assai facile da individuare. Meno intuitiva è l'individuazione attraverso il logos, che è però l'unico altro metodo possibile. La sola osservazione infatti solitamente non basta. Questo semplice test invece vi permetterà di discernerlo con certezza in pochissimo tempo.

Tutto quello che dovrete fare sarà introdurre l'argomento della violenza sulle donne. A quel punto, il maschilista si paleserà con rispostee che sarà possibile collocare all'interno di un ben definito ventaglio di possibilità, che qui elenchiamo:

- "Gli uomini sono violenti per via del testosterone", detta "ipotesi naturalista"; 

- "Le donne provocano", detta "ipotesi del concorso di colpa";

- "Gli uomini diventano violenti perché ormai la famiglia non esiste più e tutto va a scatafascio", detta "ipotesi catastrofista";

- "Le donne in realtà hanno in mano le redini del potere e inventano bugie per annientare gli uomini", detta "ipotesi del complotto o del NWO (New Women Order)";

-  "La colpa è delle madri che non educano bene i figli", detta "ipotesi della partenogenesi";

- "Gli uomini diventano violenti perché le mogli cattive con il divorzio gli tolgono tutto", detta "ipotesi del fake";

- "Male che vada le donne possono usare le loro capacità seduttive per cavarsela in ogni situazione", detta "ipotesi dell'invidia delle mammelle";

- "Le donne non sono capaci di aiutare gli uomini infelici o non vogliono, e così questi ultimi diventano violenti", detta "ipotesi dell'infermiera incompetente o cattiva";

- "Sono altri i problemi del paese", detta "ipotesi benaltrista", particolarmente insidiosa perché tende ad insinuarsi anche in habitat teoricamente ostili al maschilismo.

Speriamo che questa guida vi renda più semplice l'orientamento e vi aiuti nelle vostre scoperte. In ogni caso ricordatevi che a volte può essere utile nelle escursioni portare con sè un bastone da passeggio. 



martedì 26 giugno 2012

Grillo in Oriente

Della famosa intervista rilasciata da Grillo al quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth si è già parlato molto. Si è detto delle sparate sul complotto pluto-giudaico che governerebbe tutti i mezzi di informazione (a Grillo non passa per neanche per l'anticamera del cervello il fatto che lo sguardo di favore che tanti media riservano a Israele sia una questione polica, e non un incantesimo del Mossad), di quelle sui matrimoni omosessuali e dei famosi "errori di traduzione" che il suocero iraniano di Grillo avrebbe trovato nei messaggi di Osama Bin Laden, ripetendo a pappagallo la vulgata del regime di Tehran.

Io invece mi vorrei soffermare - perdonatemi la deformazione dovuta ai miei studi universitari - sull'orientalismo di Grillo, su quello che il giornalista israeliano definisce (qui) ignoranza, ma che è invece l'espressione di un'idea molto precisa del mondo. La stessa idea che impregna ogni riga scritta da vicini di idee di Grillo quali Massimo Fini.

La prima cosa che ho notato leggendo gli estratti dell'intervista riportati, ad esempio, qui è che Grillo utilizza per parlare dell'Iran la tipica attitudine dei due pesi e delle due misure. Se infatti in Italia Grillo non rivolgerebbe mai la parola a un grande costruttore, in Iran il "cugino che costruisce le autostrade" è un fine analista dell'economia del paese, tanto da poter essere utilizzato senza dubbio come fonte da citare in un'importante intervista. Ciò che è valido qui, non è detto che sia valido lì, perché lì è diverso. La stessa giustificazione che usava Montanelli per motivare la sua convivenza con una bambina di 13 anni durante la gloriosa avventura civilizzatrice italiana in Africa Orientale.

Il secondo elemento che salta agli occhi è una vena di ammirazione, l'invidia per un mondo in cui "le donne sono il centro della famiglia", e insomma tutto è al suo posto. Esattamente come in un certo decrescitismo (si veda qui) e di sicuro come nel comunitarismo rosso-bruno, si ha una gran nostalgia per i bei tempi andati in cui le donne avevano il loro posto in casa, in famiglia e gli uomini (questo rimane sottinteso) tutto il resto. Che bellezza quei popoli che ancora vivono in questo modo, che saggezza, che genuinità. Loro non sono corrotti. Ci sarebbe tanto da imparare eh sì. Neanche l'ombra di un accenno alle sofferenze patite dalle donne iraniane a causa della legge della Repubblica Islamica, né alle loro lotte. L'Iran è un luogo in ordine (cos'è più orientalista di questo), in cui l'economia va bene e la società vive in una sorta di equilibrio naturale. Da noi le cose vanno male, perché i politici corrotti, le femministe o gli immigrati (questi fattori sono intercambiabili a seconda del pubblico che si desidera affascinare) alterano l'armonia della convivenza umana.

Per chi desiderasse approfondire la questione delle "donne al centro della famiglia" e della giustizia che tutto sommato regnerebbe nella Repubblica Islamica (anche se sì vabbè gli oppositori scappano), può leggere qui.

martedì 5 giugno 2012

Riprendiamoci il calcio

Fino a nove anni sono stata una bambina che giocava con le barbie. E' impossibile giocare con le barbie con convinzione, e infatti io ero una giocatrice interdetta. Adoravo i vestitini colorati, i capelli lunghi, le minuscole scarpe dalle fogge più diverse, ma poi, in realtà, oltre a guardarli non sapevo bene che fare. Le pubblicità facevano intuire, nascoste dentro quei vitini di plastica, potenzialità immense, che la fantasia di una bambina avrebbe dovuto schiudere in ore e ore di avventure. Ma la verità è che le barbie non solleticano per nulla la fantasia, non sono fatte per questo. Sono rigide, costipate, inespressive. Non hanno negli occhi la cruda decisione dei bambolotti da maschio, né le ginocchia snodabili, né un'infinità di aggeggi con cui compiere imprese eroiche, come scalare i palazzi, librarsi in volo, prendere in trappola i nemici. Ogni tanto il desiderio diventava più forte della paura e chiedevo una tartaruga ninja o un pacchetto di micro machines. Avevo sempre la sensazione che i grandi mi guardassero storto quando volevo giochi da maschio, che questo fatto li rendesse preoccupati e fastidiosamente intrusivi nei miei confronti.

Poi sono arrivate le età a due cifre, le scuole medie e, finalmente, la libertà dalla schiavitù dei giocattoli. Ora i miei mi davano la paghetta, e così cominciai a comprarmi gli album di figurine e le card dei calciatori. Non ero l'unica: nella mia scuola c'era una piccola comunità di ragazzine che collezionavano materiale sul calcio, sapevano tutto del campionato, delle coppe e di ogni impegno della Nazionale e qualche volta, quando avevano abbastanza coraggio, giocavano pure. Il calcio giocato nella maggior parte dei casi era troppo per noi, e di solito ce ne stavamo in disparte nel campo di pallavolo, che era relegato in un angolo del cortile tra le sbarre che ci separavano dalla strada e le buie colonne che sostenevano la scuola. Proprio per la posizione un po' equivoca del campo la professoressa di ginnastica era sempre da noi, mentre i ragazzi giocavano al centro del cortile, nella grande spianata di asfalto venato su cui i confini del campo da calcio e le porte, dipinti in vernice rossa, si distinguevano a malapena. A volte tiravano pallonate così forti che arrivavano a centrare le finestre più alte della scuola. Il calcio era un gioco per gente sudata, che aveva l'obbligo tassativo di farsi la doccia prima di rientrare in classe. Noi ragazzine, con i nostri palleggi ciondolanti, non avevamo neanche bisogno di portarci un cambio di vestiti da casa.

E poi c'erano le urla, e i falli sulle gambe, i capelli tirati, gli spintoni. Alle medie puoi competere fisicamente con i coetanei maschi, e ne hai anche voglia. Ogni volta che potevo allungavo qualche ceffone nella mischia, approfittando di un momento di distrazione dei prof. Ma per quanto riguarda giocare, bisognava saperlo fare. Non basta sapere le regole, leggere ogni giorno le pagine sportive, conoscere a memoria ogni dato tecnico delle giovani promesse del momento. Nella stagione '96-'97 la Sampdoria arrivò a soffiare sul collo della Juve in testa alla classifica, Montella segnò 22 gol e il Milan le prese sia all'andata che al ritorno. Ma io non giocavo.

Lo feci una volta sola nel cortile della scuola. Le gambe erano impacciate, i piedi rigidi, avevo paura di staccare gli occhi dalla palla. Per vendicarmi contro quell'incapacità azzoppai un mio compagno di classe. Da allora non ho mai più giocato a calcio in pubblico, e così non ho mai imparato nulla a parte la teoria. Inoltre, non ho mai smesso di odiare la pallavolo. E so che non solo la sola.

Faccio appello alle mie compagne di scuola, alle ragazzine che ai giardinetti stanno a guardare, alle migliaia di donne che nell'infanzia, invece di far correre a calci un pallone, hanno dovuto prendere in mano una racchetta da badminton o imparare a ricevere di bagher: riprendiamoci il calcio!


Un festival di tre giorni a Bologna per ripensare il calcio.  A Ottobre.
Di giorno conferenze e incontri, di sera reading e concerti.
In mezzo proiezioni di film e documentari, torneo di calcio a cinque, bar sport, workshop di costruzione della palla per bambini. E tanto altro ancora.
John Foot, Simon Kuper, David Winner, David Goldblatt, Gianni Minà, Valerio Mastandrea, Paolo Sollier, Wu Ming, Guido Chiesa, Diego Bianchi, Mimì Clementi saranno con noi, anche per organizzare l’evento. Tanti altri amici italiani e stranieri continuano ad aggiungersi.
Tutti gli eventi congressuali saranno ad accesso gratuito. Grazie anche alle decine di volontari che hanno generosamente offerto il loro aiuto per l’organizzazione.

Tifa Fútbologia
Se vuoi ragionare sul calcio e divertirti con il calcio, se vuoi venire al festival o seguirlo su internet con liveblogging, eventi in streaming e pubblicazione degli atti, partecipa al progetto:

www.futbologia.org

lunedì 21 maggio 2012

La domenica delle faglie

La domenica delle Salme (qui audio, qui contributi per l'interpretazione) è una delle canzoni più potenti del tandem De Andrè-Pagani, un brano che ha la capacità di ritrarre con poche pennellate il momento cruciale del passaggio al sistema unico, in cui il crollo del muro seppellisce anche il sogno di un mondo diverso.

E' brutto parlare di muri crollati proprio oggi, eppure questa canzone mi è ronzata in testa per tutta la giornata di ieri. Sarà che anche ieri era una domenica, sarà che è stata certamente una delle domeniche peggiori di tutta la mia vita, sarà anche stata la mancanza di sonno dovuta al brusco risveglio e alle successive paranoie, sarà che gli indizi sulla trama di una nuova "pace terrificante" si sono fatti consistenti. Oggi la pancia dei trafficanti di saponette non punta a est, non ne ha più bisogno. Le basta starsene ferma nei luoghi in cui si contrattano i piani di salvataggio - più o meno palesemente inutili - e in cui si discute dell'inevitabile contrappasso da scontare in cambio dell'onore di essere salvati.

E per quanto riguarda il gas esilerante, devo dire che ne ho annusato abbastanza ieri sera, quando tutta Bologna, nonostante le sofferenze terribili patite a pochi chilometri, si è radunata davanti alla partita in attesa dell'immancabile pizza e della fantozziana Peroni. Tanto da costringere i miei colleghi a sfrecciare per tutta la sera sotto il diluvio, e da punzecchiarli persino con continue telefonate di sollecito per il ritardo. La nottata in bianco - vissuta tra attacchi di panico e dolori al petto anche dagli invisibili lavoratori della ristorazione da asporto - semplicemente dimenticata. Un tempo c'era chi entrava in sciopero alla morte di Jimi Hendrix, oggi non si concepisce nemmeno di astenersi dal costringere il prossimo a sgobbare sotto la pioggia battente dopo una giornata terribile per tutti. Quando nello scorso post citavo i tempi orrendi, parlavo proprio di questo. Quei tempi orrendi di cui De Andrè aveva descritto il trionfo, non hanno perso in più di vent'anni un grammo del loro squallore, ma il gas esilerante si è fatto vecchio, viziato, stantio, e il suo odore stagnante è ormai percepibile anche a chi si ostina a negarlo.

Io non credo nelle avanguardie. O meglio, non credo nel determinismo che le vorrebbe l'unico fattore veramente indispensabile, l'unico indispensabile ora. Non credo nell'ecosistema di strutture (più o meno esplicitamente tali, più o meno libertarie) che interagiscono tra loro secondo un plot di riflessi pavloviani, che è lo stesso da decenni. Penso che sia l'idea di sinistra a mancare, l'ambizione all'uguaglianza. Viviamo nell'epoca meno ambiziosa nell'intera storia del movimento dei lavoratori e di quello degli studenti. Essere ambiziosi significa elevarsi al di sopra dei piccoli piaceri serali, non accontentarsi delle briciole di gioia che individualmente - sempre individualmente - ci possiamo permettere. E' questa ambizione che le piazze spagnole così come quelle americane - per non dire poi di quelle arabe - sono state capaci di evocare là dove si sono radicate. E non ce l'hanno fatta per un vantaggio antropologico, ma perché hanno avuto il coraggio di riportare in piazza quello che nella canzone di De Andrè non è più che un feretro, e perché l'hanno coltivato nella terra vera, quella delle città e dei paesi, da cui era stato estirpato. Non sono tanto naif da pensare che basti una tendopoli di gente presa bene per ribaltare un sistema, ma è di certo che quella tendopoli sta chilometri davanti a noi.

E mentre i lavoratori muoiono schiacciati dalle fabbriche pericolanti in cui erano costretti a lavorare, nessuno chiama in causa l'imprenditoria italiana e nessuno si azzarda ad andare oltre le "fermate simboliche".

venerdì 11 maggio 2012

Non si teme il proprio tempo

"Non si teme il proprio tempo, è un problema di spazio", salmodiava G.L.F ai tempi dei CSI, in un brano ispirato ai racconti barbari di Beppe Fenoglio. Uno di essi si chiama Gli inizi del partigiano Raoul, e descrive la prima notte da partigiano di un ragazzo spinto alla guerra da uno slancio ideale, dalla necessità di fare la cosa giusta, il quale però vacilla di fronte ai compagni, al loro essere "selvaggi", rissosi, eterogenei, abbruttiti. Il contrario dell'immagine che il ragazzo aveva della guerra partigiana, come qualcosa di nobile e puro, condotta dal volontarismo dei più coraggiosi contro l'ignavia degli altri. E' proprio sull'idea del soldato volontario che la mitologia dei martiri si fonda ovunque, dall'Iran dei Basij alla Germania nazista.

Ma la scelta di quei partigiani non era quella tra la nobiltà e l'infamia, ma tra tenersi il fascismo o combatterlo. Per molti, per quelli che si trovavano troppo lontani da casa e la cui unica speranza era che la linea del fronte continuasse a salire per poterla finalmente passare, non era neanche una scelta. E non erano nemmeno belli, perché i tempi non lo erano. Erano tempi di carneficine, di freddo, di fame, in cui si cresceva nelle scuole fasciste e i grandi romanzi, la poesia, la storia erano un privilegio di pochi. Si era brutti, perché erano tempi brutti, ma nonostante questo si era capaci di scegliersi una parte, di combattere e di vincere per essa.

Anche noi non siamo belli, per nulla. Siamo litigiosi, egoisti, narcisisti, boriosi, arroganti, stupidi, pretenziosi, viziati, frantumati, individualisti, illusi. Lo siamo perché i tempi sono così, perché siamo cresciuti nel disfacimento, nell'abbaglio e nella vanità, convinti che il mondo fosse un posto fatto di meriti e demeriti, di talenti, di karma, di occhi capaci di riconoscere la nostra bellezza e di elevarci al di sopra della mediocrità, al di sopra dei nostri simili. Ma le persone belle invece se ne vanno, come se ne sono andati gli anni che le hanno fatte fiorire, e rimaniamo sempre più soli, più cupi, più incapaci di agire.

Eppure toccherà anche a noi sceglierci una parte e combattere per essa, e le scelte saranno - sono già - solo due: vivere in un mondo sempre più misero (più povero, più ignorante, più malato, più crudele, più debole) oppure resistere. Resistere come hanno fatto loro, per conservare quanto di buono ancora abbiamo e per prenderci il resto, per uscire dalla barbarie in cui siamo cresciuti. Non siamo nobili, non siamo buoni, non siamo i vecchi che si sacrificano o i giovani vittime innocenti dell'ingordigia di altri. Siamo barbari anche noi, e resisteremo da barbari magari, però dobbiamo resistere.Guardandoci negli occhi, smettendola di crederci intitolati a un futuro che ci renderà merito, smettendola di crederci migliori di quello che siamo e di credere questa barbarie migliore di quello che è. Conservando i nostri libri, il ricordo delle lotte, costruendo luoghi in cui si ricordi e si apprenda. Tocca a noi farlo.

A proposito di resistenze, qui c'è un appello per creare un archivio online su Stefano Tassinari.

martedì 1 maggio 2012

Lasciare il lavoro

In questi giorni di primissimi caldi, i miei vicini di casa cenano con le porte del terrazzo spalancate, fumano seduti nell'aria dolce di maggio rivolti alle tegole della città ancora tenere sotto il sole. Fra qualche settimana il cielo bianco si schiaccerà sui tetti, livellandone la superficie come quella di una pianura desertica, frantumerà il ruvido del fianco rosso delle tegole fino a saldarlo a quello della tegola accanto, in un'unica tavola ondulata di materiale cotto, pietrificato dal sole.

Per me la stagione che avanza è l'avvicinarsi di una parete verticale di roccia, di qualcosa che non credo di avere la forza di affrontare. Nel locale in cui lavoro il caldo è già così soffocante e i ritmi così frenetici che a volte sento il cuore premermi contro il petto, grande e rigido come l'ansa di una radice misteriosamente ripiegatasi dentro il mio sterno. I miei colleghi sono sempre più magri perché, incredibile a dirsi, in cambio di 10-12 ore di lavoro non ottengono altro cibo che un piatto di pasta a pranzo e un terzo di pizza a cena, mangiati in piedi, tra la fine delle pulizie e i conti delle consegne. Io li disprezzo sotto sotto, disprezzo il loro sacrificio cieco, il loro gettarsi a peso morto sul pavimento sporco della cucina, sul bollitore giallo di amido, sui lavandini unti. Trovo stupida la loro allegria, mi sembra che ci sia della colpa in essa, come se fosse un peccato morale regalare anche solo un sorriso a un lavoro da schiavi.

Quello che guadagno è talmente poco che basta a malapena per pagare l'affitto e le spese di casa. Per il cibo e per qualunque altra cosa devo contare sui lavoretti che mi arrivano attraverso i misteriosi canali di internet. Eppure sono felice ogni volta che il capo mi lascia a spasso per un giorno senza preavviso, anche se significherà intaccare i risparmi. Dovrei tenermi stretto il lavoro, sento dire da voci ben più forti e vive di quella della mia stanca coscienza, perché tanto fa schifo ovunque e la disoccupazione è peggio. Ma questo non è lavoro, rispondo io. Non posso dargli questo nome. E' qualcosa che va distrutto, sbriciolato e seppellito sotto terra. E' una calamita che oltre che incollare i pezzi a sé, li rende pavidi, malaticci, anemici. Toglie loro il sangue e l'aria fresca e la polpa dalle guance e dai fianchi, facendoli raggrinzire come quelli dei vecchi.

Io lavoro poco, e il mio corpo non si è rinsecchito come quello dei miei colleghi. Anzi, si è fatto più forte e robusto, migliore direi nel suo complesso. E forse per questo provo disprezzo nei loro confronti, è il disprezzo di chi non ha alcun merito e cerca un sentimento qualunque per tenersi a distanza dalla sfortuna altrui, dall'orlo della sfortuna su cui in realtà cammina. Ma non è solo questo. E' anche la loro squallida sudditanza di maschi avvezzi alla gerarchia, la loro paura del potere. La loro aria colpevole quando vengono rimproverati, la loro innocuità.

Cosa farai quando sarai senza lavoro? Dovrai ricominciare tutto da capo e sarà anche peggio dell'ultima volta, perché sarai di un anno più vecchia e di un anno più sprofondata nella recessione, nella crisi che smantella l'economia, nella mancanza di una soluzione. Sì, vero, niente da eccepire.

lunedì 30 aprile 2012

Quando il femminicida è un "survivalista"

Lo confesso, ultimamente faccio molta fatica a sostenere a proposito di sessismo, discriminazione e tanto più di femminicidio, un qualunque dibattito sul web. La prospettiva di discuterne faccia a faccia con un maschilista, guardandolo negli occhi e potendogli urlare a pieni polmoni tutto quello che provo per quelli come lui, mi disgusta di meno che farlo tenendo le mani a galleggiare ordinatamente sopra una tastiera, con il mio avversario altrettanto comodo e a proprio agio nel comfort di casa sua. Sono convinta che i maschilisti andrebbero schiodati dalle poltrone attaccate a cui - e questa è l'unica giustizia - inesorabilmente invecchiano, e incalzati per la strada, nelle piazze, perchè all'aria aperta le loro idee e le loro persone emanano l'inequivocabile odore della materia di cui sono fatte.

Tutta via al riparo del mio blog e alla larga dagli stalker telematici che sembrano non avere altra occupazione che quella di perseguitare le femministe, voglio parlare di un articolo che, in mezzo al mare di orrori che vengono quotidianamente scaricati dalla stampa sulle donne uccise, mi ha particolarmente colpita. Si tratta di una notizia di cronaca estera, e forse per questo il giornalista s'è sentito libero di tralasciare le cautele che, anche qui forse, cominciano a essere applicate sui femminicidi nostrani.

Il titolo dell'articolo, apparso sul Corriere.it a firma di Guido Olimpo, dice: "Usa, muore nel bunker costruito per sopravvivere alla fine del mondo". Sotto al titolo il sommario ci comunica, innanzitutto, che il bunker era stato costruito dal morto (che fino ad ora ci sembra un povero fesso trapassato per via di qualche disgrazia) in otto anni di duro lavoro. Quindi veniamo a sapere che il tizio, prima di crepare, aveva ucciso moglie e figlia.

L'articolo comincia con quello che a questo punto sappiamo essere un assassino, che stipa provviste nel suo super-bunker. Era un survivalista, ci dice Guido Olimpo, e ora cito pari pari: "Odiava lo Stato ed era convinto che la fine del mondo fosse vicina. Invece è arrivata la sua fine. L’uomo, 41 anni, ha ucciso la moglie Lynette (39 anni) e la figlia, Kaylene (18 anni), poi si è tolto la vita all’interno del suo rifugio segreto.". La SUA fine. Della fine della moglie e della figlia adolescente, o magari della loro vita, non si sa nulla e nient'altro si scoprirà dall'articolo, solo che i loro cadaveri sono stati trovati dai pompieri che hanno spento l'incendio appiccato dall'assassino alla casa che, oltre che SUA (ma Olimpo si scorda di dircelo) era anche loro.

Dopo un breve resoconto dell'assedio al bunker del "survivalista", Olimpo passa a descrivere, altrettanto brevemente, il movente. "Forse un gesto di follia", dice, dovuto - pensate - alla paranoia post 11 settembre, aggravata dall'elezione di un presidente di colore. Sono pazzi questi MMericani. Le due povere donne uccise - una appena ragazzina - scompaiono in un moto di orgoglio e di superiorità vecchio continentale, perché quelli mangiano male e non hanno mica la nostra cultura. In quelle strade lunghe senza niente, nei paesini dispersi, con tutta la criminalità e gli attentati, certo che alla fine si diventa matti. 

Ed ecco una foto di Lynette e Kaylene Keller, quella che il Corriere non ha mai pubblicato.




martedì 24 aprile 2012

Quando il capo è un maschilista

L. mi racconta questa storia ridendo, ma la sua è una risata che non ha nulla di liberatorio. E' la risata di chi trova le cose troppo assurde e grottesche per riderne davvero, e allora usa il sarcasmo per mettere tra sè e il resto almeno una barriera di carta, che le permetta di continuare a fare il suo lavoro senza avere sempre davanti agli occhi un pessimo spettacolo.

Il suo capo è un maschilista, un maschilista rampante, di quelli che usano il successo come dimostrazione della loro superiorità e allo stesso tempo come strumento per imporla. Per esempio, assumendo solo dipendenti donne, e tediandole con battutine e doppi sensi a cui, per la loro posizione appunto, si presume che non debbano reagire, ma che anzi sono invitate ad assecondare. E quando la conturbante realtà dei fatti - per quante cravatte, moto da corsa e battute sessiste lui sia in grado di estrarre dalla ventiquattr'ore - irrompe spezzando l'incantesimo che custodisce la porta del suo ufficio, tanto vale negarla, perché non si espanda come una macchia di sudore freddo sulla camicia o come un'onda di vendite sul suo titolo in borsa.

"Ho cacciato la nostra collaboratrice a Roma", dice alle ragazze dell'ufficio bolognese, "ci ha quasi fatto perdere un cliente. Allora l'ho cazziata talmente tanto che lei ha dovuto chinare la testa e andarsene". Il maschilista non ha bisogno di verità matematiche, di certezze storicamente comprovate o di logiche incontrovertibili. Nel suo mondo non ce ne sono, e lui ha imparato a farne a meno fin dall'infanzia, come quelle piante di pomodori che si adattano a vivere all'ombra. Alla pari dei pomodori i maschilisti devono allungarsi sempre di più, allontanandosi da terra, per cercare una qualche luce che li conforti.

Dall'alto della sua vertiginosa posizione, il datore di lavoro può scorgere la ex collaboratrice romana mentre raccoglie le sue poche cose dalla scrivania dell'ufficio e consegna la lettera di dimissioni, e può far finta di non vedere il sorriso stampato sulla sua faccia e i biglietti per la partenza (in direzione di una borsa di studio e di un lavoro di certo migliore) già infilati nella tasca. O forse non la guarda nemmeno e, seduto alla sua poltrona girevole, ripercorre mentalmente la cazziata immaginaria con cui, già si è scordato di pensare, s'è salvato in corner.


venerdì 13 aprile 2012

La strategia del bruco artico, ovvero la piccola impresa ai tempi del governo tecnico

Non bisogna avere un olfatto canino per accorgersi che da quando il governo tecnico si è installato a capo del paese l'aria è cambiata, e anche parecchio. Ma non si è fatta più pulita, al contrario. Nell'epoca del governo tecnico, la guardia di finanza si aggira per strade deserte, pattugliando la recessione. Le capatine a Cortina o nelle zone più upper class della Milano da bere, sono solo piccole deviazioni, perché le vie che in realtà persegue sono quelle in cui una volta si aggirava, con l'immancabile "buono stipendio" in tasca, la classe media. Quei portici colorati, luccicanti di ristorantini, pasticcerie, negozietti di articoli da regalo e via dicendo, sono ora tetri tunnel in cui le serrande si abbassano - definitivamente - ad ogni rintocco di ora. Loschi figuri, inviati da uno stato mai così vigoroso e risoluto nell'estrarre l'imponibile, apparentemente, da ogni palmo di terra che rientri sotto la sua giurisdizione, si aggirano tra le auto parcheggiate, nei negozi, tra le padelle della ristorazione al minuto, lasciando dietro di sé una scia di multe e verbali. "Alla buon ora!", si sarebbe detto qualche tempo fa, quando pagare le tasse era considerato un emblema di nobiltà e si riteneva più che d'obbligo sottoporre il paese a un lavacro fiscale per ripulirlo dei suoi secoli di caos e illegalità. Ora che la crisi morde e i creditori bussano alla porta, la faccenda appare sotto tutta un'altra luce.


In due anni in Emilia Romagna hanno chiuso 1500 ristoranti, principalmente di fascia media. Attività in buona parte nate e cresciute nel fertile brodo del lavoro nero e dell'evasione, che ne hanno fatto una delle colonne portanti, se non l'impalcatura stessa, del loro successo. Calano i consumi, crescono le spese per le forniture e a dare il colpo di grazia arriva la mannaia del fisco, tanto più affilata e devastante proprio perché arriva in un momento in cui la gente ha la sensazione di avere perso definitivamente il controllo sulla sfera politica. La forbice di Monti&Company taglia, insieme alle pensioni e ai diritti, quella cordicella che ancora congiungeva potere politico ed elettorato, lasciando nel disorientamento più totale coloro che fino a ieri avevano creduto di avere saldamente legato alle spalle il paracadute della democrazia.

La piccola e piccolissima impresa, che in Italia rappresenta uno dei maggiori habitat della classe media, ha poche chance di sopravvivenza. In moltissimi casi, decine di migliaia nel solo 2011, l'azienda, semplicemente, chiude, lasciando per strada i lavoratori e, spesso, costringendo il proprietario al cappio di enormi debiti. Negli ultimi anni i casi di suicidio per cause economiche sono aumentati di un quarto.

In altri casi, l'azienda sceglie la strategia, appunto, del bruco dei climi più inospitali: si congela, rallentando fino a che non le rimane soltanto un lumicino di vita, in attesa di accumulare abbastanza forza per divenire finalmente qualcos'altro. Nel caso delle imprese, non si tratta di una creatura alata, ma di diventare liquido, denaro con cui campare per un po', in attesa di tempi migliori, di un espatrio fortunato o di qualche altra occasione. Laddove i giganti finiscono per investire il frutto della liquefazione delle loro industrie al blackjack della borsa - con profitti stratosferici - i piccoli si accontentano di ridurre al minimo le spese fino a riuscire, magari, a volatilizzare definitivamente l'azienda, vendendola al miglior offerente. E' questo che provoca lo tzunami della Legge quando si abbatte su un'economia largamente informale e per di più sull'orlo del tracollo.

In tutto ciò, i lavoratori si trovano presi tra due fuochi: da una parte il datore di lavoro, dall'altra lo Stato, pronto ad assorbire denaro come una spugna asciutta. L'imprenditore vuole liberarsi di loro, lo Stato montiano vuole liberarli dal lavoro nero. Due intenti che trovano una straordinaria confluenza nel momento in cui il lavoratore, guarda caso, perde il posto.

Che lo scopo dell'attuale riforma sul lavoro non sia per nulla quello di tutelare maggiormente i lavoratori precari ma, semmai, di renderli ancora più precari e nel frattempo di aumentare anche un po' le tasse, mi pare logico. Tanto più se, e se n'è accorto persino il super-liberista Tito Boeri, le tasse si possono far pagare al lavoratore stesso, riducendogli lo stipendio. Per inciso, questo accade già in tutti quegli ambiti in cui il nero prevale, nei casi in cui il lavoratore pretenda/necessiti di avere un contratto in regola. Sono moltissimi i migranti che pagano di tasca loro i contributi collegati a un contratto che gli serve per ottenere un permesso di soggiorno. In un futuro ormai alle porte, i lavoratori pagheranno il prezzo di una legalità che non li garantirà contro la perdita del posto di lavoro, né contro una vecchiaia di povertà, né contro un sicuro decadimento di tutto ciò che è pubblico, dalla scuola, alla sanità, ai trasporti, alle risorse naturali e storiche.

lunedì 2 aprile 2012

La rubrica culinar-precaria del lunedì: inno all'asparagina

Dopo il risotto al praticello ecco un'altra ricetta dedicata a coloro che trovano estremamente stimolante (e persino eccitante) dal punto di vista gastronomico, andare rubacchiando il cibo alle frasche all'apparenza più aride e spinose. In tempi come questi - in cui il denaro nelle tasche va prosciugandosi con la stessa ineluttabile costanza con cui evapora il lago d'Aral, in cui ogni stato governato da psicopatici del pianeta sembra possedere l'atomica o esserci vicino e in cui la fatidica data del 12/12/12 si avvicina - l'idea di essere in grado di procurarsi di che mangiare into the wild e senza l'ausilio del triste soldo, torna ad esercitare un grosso fascino. Per me, che da bambina sognavo di essere un animale selvatico e che preferivo avere mal di pancia piuttosto che smettere di sgranocchiare ghiande non appena trovavo un leccio appetitoso, non c'è nulla di nuovo e anzi talvolta mi scopro a rispondere con odiosissimi accenni all'acqua calda a quei decrescitisti e appassionati di ecobio che d'un tratto si accorgono dell'insalata di campo o delle more. Bella scoperta! Io a sei anni passavo i sabati a nutrirmi di corbezzoli e fiori di trifoglio.

Da piccola, il cibo boschivo mi dava una grande sensazione di libertà, spalancava i sicuri recinti della vita domestica e familiare per farmi scorgere un mondo di infinite possibilità di sopravvivenza, in cui me la sarei cavata e anzi, magari, a girar per montagne senza scuole elementari, catechismi, gite obbligate da 012 quando i pantaloni diventavano corti, me la sarei passata persino meglio. Quindi bevevo con sete sempre nuova il sapere che mi trasmettevano i parenti raccoglitori, immagazzinando le informazioni in una sacca da viaggio che, nonostante lo stato indecoroso di molte altre ale della mia memoria, non ha mai mostrato il più piccolo foro.

Il post di oggi non contiene una ricetta particolare, ma semmai qualche consiglio di ricetta e una guida alla raccolta di una pianta tanto repellente quanto capace di regalare frutti gustosi e anche, sul mercato, terribilmente cari. Trattasi dell'asparagina, ovvero della sorella più vecchia, rachitica e selvatica dell'asparago comune. Per chi non la conosce, l'asparagina ha l'apparenza di un ciuffo di lana di vetro portato dal vento a impigliarsi in un cerpuglio di rovi, qualcosa di brutto, persino inquinante forse, e di certo irrimediabilmente sterile. All'osservatrice abituata alle escursioni primaverili a caccia di cibo fresco et gratuito, invece, l'orrendo cespuglio evoca già, nella giusta stagione, la dolcezza delle primizie, di quella breve parentesi di tempo nella quale i lunghi frutti verdi perforano il terreno secco, crescono e si allungano verso il sole tiepido di marzo, umidi di linfe zuccherine e di vita.

Raccoglierli è un gioco da ragazzi, tanto sono indifesi e alla mercé di qualunque animale bipede, quadrupede o di altro tipo che sia, basta indossare scarpe robuste, pantaloni lunghi e, per chi non avesse una vista più che perfetta, un paio di occhiali. Come già detto, l'asparagina ha un'aspetto spiacevole, del tutto trascurabile per chi amasse dei boschi soprattutto la poesia, e infatti non è mai comparsa, che io sappia, in alcun paesaggio impressionista nè la vedrei bene ad arricciare il sottobosco nelle sublimi vallate di Albert Bierstadt. Nè ha la statura metaforica del rovo o dell'ortica, oppure la più prosaica utilità del luppolo. Per tutti questi motivi, sono pochi gli occhi che la notano, e di solito sono occhi che già sanno quello che, tra la peluria spinosa, si può celare.

Per trovare l'asparagina cercate un qualunque angolo di vegetazione che abbia l'aria secca e inospitale, e con poche probabilità di errore scoprirete di esserne circondati. D'aspetto contorto e spesso poco irrorato di clorofilla, ha in realtà il suo deposito di delizie sotto terra, dove i frutti - che in verità si chiamano turioni e che sarebbero nuovi germogli - vengono incubati e poi infine proiettati all'esterno. Non li dovete quindi cercare attaccati alla pianta, ma nelle immediate vicinanze oppure in mezzo a un cespuglio particolarmente fitto, su cui il verde intenso dell'asparago dovrebbe, se fate attenzione, svettare nettamente.

Esplorando sottoboschi, pruni ai confini tra i campi e perimetri di foreste ombrose, dovreste riuscire piuttosto facilmente, se azzeccate il momento propizio, a farvi su un bel mazzetto di verdura con cui condire tagliatelle, imbottire frittate, farcire risotti, rinforzare insalate e via dicendo. Avrete inoltre guadagnato in robustezza fisica, in consapevolezza ambientale, in capacità di osservazione e anche in autostima. Mica poco per un cespuglio che in tutta la storia dell'umanità non si è mai meritato un'espressione di stima, una parola di lode, uno sguardo amorevole, una pennellata d'autore. Io dico che questa è un'ingiustizia.

giovedì 29 marzo 2012

Just in time

Nell'intervista ripresa ieri su Lipperatura, Luciano Gallino fa un'utilissima analisi su quelle che sono le origini della precarietà e le motivazioni che la rendono epidemica: non si tratta di un problema di costi (o del fatto che i padroni hanno paura di doversi tenere per forza un lavoratore che a un certo punto comincia a rubare, si gira i pollici dalla mattina alla sera o finge malanni per concedersi ripetute vacanze extra, come pure sostiene una buona fetta di popolazione ingrassata a pane e Libero). Ed è altrettanto falso che la precarietà aiuti a rilanciare l'occupazione in un momento in cui, per qualche misterioso motivo, il lavoro andrebbe estinguendosi dalla faccia della terra, tant'è che negli ultimi vent'anni, cioè da quando la flessibilità lavorativa è stata introdotta e poi continuamente incrementata, l'occupazione in Italia non è cresciuta (vedere i dati qui).

Il grande vantaggio dei lavoratori precari, è che si può mandarli via quando non servono più, o si può modificare il loro stipendio e la loro presenza in modo totalmente discrezionale. E le imprese hanno talmente approfittato di questa possibilità, che ora tutto il sistema economico ne è completamente dipendente. Come spiega Gallino, hanno ridotto all'osso il numero dei loro impiegati fissi, e hanno esternalizzato e precarizzato il più possibile, tanto che ora ogni anello della catena funziona così.

E' il lavoro just in time, cioè il lavoro che comincia esattamente nel momento in cui ce n'è bisogno per finire esattamente nel momento in cui non è più indispensabile. E' il principio del risparmio energetico applicato agli esseri umani. Per cui da un full time si può passare a un part time in un battibaleno, a seconda della stagione dell'anno o di quanto sono gonfie le casse di un'azienda, oppure si può essere assunti e licenziati a fasi alterne, rimbalzando tra l'occupazione e la disoccupazione come se ci si trovasse appesi a un elastico da bunjee jumping. Così come il clima stravolto dall'inquinamento, anche l'economia globalizzata vive stagioni di grande devastazione e l'arsura polverizzatrice può cedere il passo a repentine alluvioni. Peccato che gli imprenditori, grandi o piccoli che siano, abbiano utilizzzato le pietre degli argini per costruirsi la casa al mare.

La casa al mare è tutt'altro che una - peraltro banale - metafora. I due tratti fondamentali che caratterizzano la fisionomia economica degli ultimi 20 anni sono un po' ovunque l'aumento della forbice che separa i ricchi dai poveri e la precarizzazione del lavoro, che diventa via via sempre più flessibile e informale. Il rischio di impresa viene fatto ricadere sui lavoratori, fatto che ha la straordinaria conseguenza di causare un'impennata nei profitti. E laddove i grandi danno l'esempio, i piccoli seguono a ruota.

E scendendo a valanga dal globale alla solita localissima pizzeria, ecco che quello che va blaterando il mio capo da qualche giorno - "qui dentro siamo diventati troppi" - assume tutta un'altra proporzione. I ristoranti da asporto non appena il clima diventa più tiepido iniziano a lavorare meno. E allora si finge di cadere dalle nuvole e si chiede a qualcuna di sacrificarsi (quella qualcuna, per inciso, al momento sono ovviamente io), affidandole il gravoso e nobile compito di scendere a patti con la dura realtà della vita e di caricarsi sulle spalle il peso della riduzione delle entrate.

E per inciso, il fatto che il capro dell'occasione sia una lavoratrice è anch'esso perfettamente in linea con l'andazzo generale, dal momento che questa situazione, com'è ovvio, affligge tutti, però precarizza di più le donne, che rappresentano il 50% della forza lavoro precaria pur essendo solo il 40% della forza lavoro totale.

Come cantava Gene Kelly, stringendo la mano di Julie Andrews, "Just in time I find you, just in time. Before you came my time was runnin' low".

mercoledì 21 marzo 2012

La disoccupazione in Italia

Ci sono giornate in cui sembra di non contare proprio nulla, in cui ci si sente al centro di una ragnatela di fili di cui nessun apice è nelle nostre mani. Intrappolati come conigli presi al laccio, con il ventre stritolato dai cavi, gonfiamo il torace per far spazio ai polmoni e pensiamo solo a resistere, un respiro alla volta. Ci schiacciamo a terra, lasciando al mimetismo tutte le nostre speranze. Nel frattempo, sopra le nostre teste soffiano i venti più terribili, che ci bruciano sulla pelle come se trasportassero sabbia. Erodono piano piano ogni involucro del nostro corpo, scuotendo i muscoli, schiantandosi sulle ossa, annichilendo i nostri sensi coi loro boati. Solo il cacciatore sa dove siamo, e solo lui può liberarci. Un paradosso che le nostre menti ubriache di panico non riescono a risolvere.

Ve la meritate la disoccupazione, dice il mio capo in modo che solo io possa sentire. Ecco da dove viene la disoccupazione in Italia, dalla vostra pigrizia, dalla vostra stupidità, dalla vostra incapacità di lavorare per davvero, di essere dei professionisti in qualcosa, in una cosa qualunque. Io rimango rintronata dalle sue parole, dalla loro crudeltà, dalla loro volontà di ferire. Non ci si aspetta mai un intento così chiaro, così manifestamente diretto a far male. Siamo sempre più portati a muoverci nel grigio delle ambiguità, piuttosto che nel bianco o nel nero. Pensiamo che anche per gli altri sia così.

Oggi è il giorno in cui mi spettano le consegne. Salgo sulla bici e pedalo con le gambe indolenzite dal calore della cucina, gonfie di umidità corporea. Inseguo un filo d'aria per le vie strette di Bologna, senza che riesca a togliermi la sete di ossigeno. Sento le guance incresparsi precocemente di rughe, e maledico tutto, la città, il lavoro, la mia squallida età mezzana, tempo di intervallo tra le epoche vere, quelle che in passato di scioglievano l'una nell'altra quando il lavoro e i figli giungevano senza che in testa si avesse ancora un capello bianco. Ora è un solo un tempo in cui non ci si raccapezza, e si sperimenta una povertà pari solo a quella dei nostri nonni, a quella che i nostri nonni credevano di avere deposto insieme alle armi e che invece hanno ritrovato da vecchi, rovistando nei cassonetti, scavando negli armadi alla ricerca di un vecchio grembiule.

Finisco il mio turno, lascio il denaro su uno scaffale accanto all'uscita sul retro. Forse è meglio se me ne torno tra i disoccupati, dico al mio capo, visto che sembra essere quello posto che fa per me. Mi sembra giusto scegliere una frase teatrale, mi sembra più che corretto pronunciare qualcosa di maestoso mentre con uno scatto di addominali e un colpo delle zampe posteriori mando in pezzi la trappola. Il mio datore di lavoro mi chiama mentre sono già sulla bici. Non ce l'avevo con te, dice. Ce l'avevo coi pakistani. Mi chiedo se gli insulti che gli ho rivolto bastino ad emettere una diagnosi di dignità, se mi permettano di indossare, almeno per qualche ora, il fard vermiglio dell'orgoglio e di fingere di aver ottenuto una piccola vittoria, di fingere quasi di non averla ottenuta solo per me.

Per oggi bastano, concludo. Bastano quasi.