giovedì 26 gennaio 2012

Sociologia del volantinaggio porta a porta

Fare volantinaggio non sarebbe un lavoro brutto in sé, specialmente per una ficcanaso come la sottoscritta. Ci si può infilare dietro i portoni, esplorare i cortili e gli androni, sbirciare scorci di case, passeggiando senza troppi pensieri e anzi con l’occasione di mettersi qualche soldo in tasca.

Succede però, come sempre, che la realtà non corrisponda affatto alla teoria, e che il potenziale piacevole di un lavoretto onesto e di poca fatica svanisca nel nulla. La volantinatrice o il volantinatore neofiti, dopo i primi minuti di assestamento nella mansione, si ritroveranno ad osservare con timore la lista dei nomi incollati ai citofoni, e a ponderare con cura la scelta dei pulsanti da premere. Per scaramanzia, citofoneranno a quelli che gli ricordano storici leader e intellettuali del movimento operaio, come Gramsci e Malatesta, e giungendo persino ad accontentarsi di nomi più comuni ma meno promettenti, come Franceschini o Bersani. Oppure sceglieranno aggettivi che ispirino benevolenza, come Pacifico, Sereni, Buono, quando non si lanceranno direttamente, incrociando le dita, su Speranza e Pregaddio. Al momento di definire se stessi, rassegnatamente, come “Pubblicità”, adotteranno un tono di voce a metà strada tra il rammarico per il disturbo arrecato al citofonato e la fermezza della necessità. I più audaci simuleranno persino gli acuti anni ’80 dei venditori piramidali, confidando nella possibilità che tramortiscano le casalinghe vogheresi eventualmente trasferitesi nei paraggi.

La volantinatrice e il volantinatore più esperti hanno già elaborato a mente, durante le prime giornate di lavoro, dettagliate statistiche che li aiutano non poco nell’interpretazione della strada e dei palazzi a cui il capo li ha indirizzati. Potrebbero stilare paper sociologici su un quartiere con una sola occhiata agli intonaci e alla calligrafia dei nomi scritti sul citofono. Conoscono le tecniche per proteggersi, almeno un poco, dagli inquilini irascibili e per evitare di compiere quel gesto scellerato che obbliga immancabilmente a oltrepassare la linea che divide i buoni volantinatori dai cattivi: lasciare il materiale fuori dal portone, nelle apposite cassette con sopra scritto, in caratteri cubitali, “Pubblicità condominiale”. Nossignore, troppo facile. Il fulcro di questo marketing su suola non possono in nessun modo essere quei ricettacoli di spazzatura evidentemente incapaci di recapitare alcun messaggio. La meta dell’atto del volantinare porta a porta sono, senza alcuna delega, le cassette della posta e dopo di loro le ambitissime mani dei consumatori, i tavoli delle loro cucine, i mobiletti su cui tengono i telefoni e appoggiano le chiavi appena entrati in casa. E i consumatori vengono inevitabilmente identificati dai datori di lavoro alla ricerca di nuova clientela nella classe media. Lasciando perdere le campagne pubblicitarie a tappeto che, per ovvie ragioni, compiono supermercati e megastore dell’elettronica, le zone che vengono battute quando si sponsorizza una piccola attività sono sempre quelle di residenza del ceto che da generazioni ricopre il ruolo di motore per l’economia di bottega. Un ceto che oggi non ce la fa più.

Quando si citofona a degli sconosciuti in queste condizioni, letteralmente, può capitare di tutto. Ci sono gli eterni scocciati, disturbati di default da qualunque richiesta, ci sono i possessivi che abbaiano attraverso l’altoparlante, ci sono quelli che si credono i più furbi di tutti, che loro non abboccano alla pubblicità, sono fuori dal sistema e ti hanno beccato, a te, ambasciatore della propaganda che con i tuoi volantini colorati rechi subdoli incentivi al consumo. Non ti apriranno mai, costoro, dato che sei un ingranaggio della macchina mangiasoldi che fa sì che loro, a fine mese, non abbiano mai una lira. Sei un soldato dell’esercito nemico, con le tue liste di prodotti e i tuoi prezzi scontati, e loro ti hanno smascherato.

Negli androni decorosi della classe media, quelli con una bella luce calda e i passeggini lasciati accanto alla rampa delle scale, la volantinatrice e il volantinatore si sentono dei ladri. Imbucano freneticamente e altrettanto di fretta tornano all’esterno, per paura di incontrare qualcuno che, alla loro vista, si senza assediato e reagisca di conseguenza. Sempre più in paranoia, quelli che ancora non sono dei poveracci avvertono pericoli in chiunque bussi alla loro porta, e si sentono minacciati da qualunque azione che veda come obiettivo i loro portafogli e che non sia sufficientemente celata sotto un cerone di branding. I volantinatori, le ultime ruote del carro in fatto di pubblicità, hanno la venalità dipinta sui loro volti scuri di stranieri, oppure di eterni scapestrati incapaci di trovare un lavoro vero. Quando, scendendo le scale, si impatta nelle loro figure infagottate in giacconi cinesi, l’impressione è di quelle che tagliano le gambe a qualunque tentativo promozionale. Tra i migranti, quelli che finiscono a fare questo lavoro sono gli ultimi arrivati, che ancora non sanno mettere in fila più di tre parole di italiano e che in ogni occasione, quando si tratta di avere a che fare con gli autoctoni, hanno lo sguardo sperduto e colpevole di chi si sente ad un esame per cui non si è preparato abbastanza.

I rari italiani appartengono in buona parte alla categoria degli scapestrati: si tratta, di solito, di donne di mezz’età, trafelate oltre ogni dire, che per campare mettono insieme una galassia di minuscoli impieghi del tutto eterogenei e largamente sommersi. Le loro automobili puzzano di verdura marcia a causa delle cassette che smerciano tra i mercati, le loro borse sono sempre a tracolla e sempre troppo piene di roba. Oltre a loro, l’altra categoria maggioritaria tra gli italiani è ancora connotata al femminile, ed è quella delle frontwomen: ragazze, solitamente dall’atteggiamento e dal vestiario educato ma energico, che vengono spedite a diffondere il verbo nelle zone più chic e centrali, affinché dialoghino direttamente con i potenziali clienti e ammorbidiscano i cuori dei portinai nei palazzi più lussuosi. Di questo ordine fa parte la sottoscritta. Mentre il collega pakistano affronta i quartieri più popolari – anche se mai poveri – io vengo spedita tra i portici eleganti, a consegnare volantini con il sorriso sulle labbra e a descrivere, almeno questa sarebbe l’ipotesi, le eccelse qualità del cibo e del servizio di fronte a negozianti, receptionist di ambulatori medici, segretarie di uffici, banche, imprese di ogni genere. Il mio scopo è di fare, appunto, branding, e tra un negozio di borse e una finanziaria, avere anche l’agilità necessaria per infilarmi nei condomini più affollati, superando videocitofoni e perentori divieti incisi su targhe d'ottone.

Nei sogni a occhi aperti del mio datore di lavoro, dietro quelle cassette della posta si trova una popolazione di consumatori che la crisi in realtà ha già quasi ormai ridotto ad una voce sull’enciclopedia e che è destinata a ritirarsi sempre di più. Sbirciando nei loro androni quello che si avverte non è certo la serenità di chi si è sollevato dall’indigenza, ma anzi l’inquietudine di chi si sente perseguitato da pessimi presagi e se la prende con chi minaccia il suo status di consumatore felice e padrone di sé, che è l'unico che riescono ad attribuirsi.

Il volantinatore cerca la solidarietà di classe dei cognomi stranieri, sperando che conservino ancora la memoria dei lavori umili che il consumo ha alle spalle, oppure negli studenti fuorisede, che pure sono un buon target. Gli altri, quelli che hanno nomi regolarmente stampati in lettere ordinate - di solito coppie di nomi - si trincerano dietro cassette dedicate alla pubblicità condominiale e non aprono a nessuno.

lunedì 23 gennaio 2012

La rubrica culinar-precaria del lunedì: Occupy Nutella

Quale impresa migliore, per la seconda puntata di questa nuovissima e sperimentalissima rubrica culinar-precaria, che tentare l'arrembaggio alla dirigenza Ferrero, a quella carovana intagliata nel più fine gianduia che, nei sogni a occhi aperti di tanti esseri umani, avanza nell'Ovest inebriando le pianure con i suoi sapori e trasformando i venti in folate di profumi celestiali? Basta sentirne il nome - Nutella - perché il palato sprigioni un mare di acquolina e il cervello sintonizzi le sue sinapsi sulle frequenze della fame chimica.

Come tutti i sex symbol pompati dalla tv commerciale, anche la Nutella ha un retrogusto sospetto, un sentore di falsità. Forse un labbro rifatto, una chiappa photoshoppata, un'omosessualità sepolta per contratto dietro inequivocabili videoclip softporn fitti di modelle. Non poche sono le cose che non quadrano. Innanzitutto, la leggendaria untuosità, che la rende agile a spalmarsi sul pane quanto una sciolina al cacao, ma che allo stesso tempo fa sorgere nelle più recondite anse del nostro corpo - quelle in cui ancora sopravvive la coscienza dell'animale preistorico - il dilemma atavico dell'avvelenamento. La lingua si ribella al volere della mente civilizzata, e si dibatte goffamente nel tentativo di governare la sostanza dolce e bituminosa che sembra volerla avviluppare a morte. L'esofago, allarmato, urla ai ricettori del sistema nervoso di trovare dell'acqua per diluire il pericolo, e per far fluire il misterioso Venom vanigliato fino agli impietosi acidi dello stomaco. Ed è in uno spasmo di resistenza armata che, in certi apparati digerenti ancora memori di un alimentazione preindustriale, la Nutella viene annientata, mentre il ghiotto consumatore, alle prese con una fame pavloviana, agguanta di nuovo il barattolo e si spalma un'altra fetta. Non senza percepire però, in fondo al calice delle endorfine, una misteriosa quanto concreta inquietudine, la sensazione che da qualche parte, per prudenza, i fucili siano ancora puntati a tenere sotto tiro il cadavere del nemico.

In secondo luogo, il sapore cioccolatoso, in drammatica contraddizione con la presenza quasi solo omeopatica del cacao. In rete circolano voci secondo cui l'indubitabile cioccolosità della Nutella sarebbe dovuta a una lavorazione assai poco ortodossa delle nocciole, trasformate da semplici gusci di acidi grassi a contenitori di sapori del tutto sconosciuti alla natura. E qui veniamo al tasto dolente, al nervo scoperto della mia personalissima vicenda di vita, al richiamo del sangue per così dire, insito nel mio 50% di geni langaroli.

In quell'arricciamento di colline a ridosso delle Alpi liguri, dette Alta Langa - where I belong, almeno per il 50% - la nocciola è il prodotto agricolo più comune e più redditizio. La coltivazione di questo piccolo alberello deve il suo successo, almeno in parte, alla grande prossimità dei territori agricoli alle fabbriche della zona, e al fatto che tali fabbriche (in particolare l'Acna di Cengio) avessero completamente contaminato i fiumi di agenti inquinanti. A tal punto che non fu più possibile produrre vino.

La nocciola era inoltre più adatta alla vita dei nuovi contadini part-time, che lavoravano, appunto, in fabbrica, e arrotondavano con coltivazioni che non richiedessero un impegno quotidiano e grossi investimenti anche in termini di manodopera. La raccolta delle nocciole era un lavoro femminile. Gli alberi venivano semplicemente potati e mantenuti in salute con un minimo di concimazione e poi, quando i piccoli frutti iniziavano a cadere a terra, li si raccoglieva uno ad uno. Chi non riusciva a fare il lavoro con le sole forze delle donne della famiglia, si faceva aiutare da braccianti, sempre donne. Le nocciole finivano poi direttamente alla Ferrero di Alba, che rastrellava i suoi approvvigionamenti da decine e decine di piccoli e piccolissimi produttori dei dintorni.

Anche se mio nonno era inflessibile su questo punto, per la mia generazione e per quella di mia madre le nocciole sono sempre state una specie di hobby vagamente sportivo. E' talmente poco ormai quello che si guadagna dalla vendita, che si fa il lavoro per senso del dovere, perché tutto sommato all'ombra degli alberi non si sta male, e perché è un modo per stare insieme. In realtà è molto faticoso: i filari di nocciole sono andati quasi ovunque a sostituire le vigne, e per questo venivano piantati su pendii in cui mantenere l'equilibrio è quasi proibitivo, nei ritagli di colline impossibili da coltivare a grano perché, appunto, troppo scoscesi. Stare ore e ore piegate a raccogliere, con le ginocchia che devono reggere il peso del corpo, della cesta e dell'inclinazione, è un lavoro per gente robusta. Tanto più ad agosto, momento in cui le nocciole maturano e cadono e sulla Langa il sole è talmente abbacinante che la terra diventa bianca.

Quando posso, lo faccio io. In una corsa contro il tempo per raccogliere più nocciole possibili prima che cali la notte e, con essa, arrivino anche orde di scoiattoli ed altri roditori tenerissimi ma terribilmente voraci, riempio cestini su cestini mentre mia nonna, all'ombra sul terrazzo, setaccia con le mani il raccolto togliendo i frutti bacati o vecchi. E quando gli alberi sono molto produttivi - fatto che, lasciandoli praticamente allo stato brado, avviene una volta ogni due o tre anni - ancora cerchiamo di vendere ciò che avanza dal consumo familiare, indirizzando il nostro surplus al mercato su cui si rifornisce la famosa Ferrero. Dopo giorni e giorni di raccolta a mano negli ultimi anni il ricavato era veramente una miseria. Ed ecco, quindi, questa ricetta, resa dolce dallo zucchero, dal cioccolato, dalle nocciole della Langa ma anche, ammettiamolo, dalla vendetta e dall'orgoglio della ghiottoneria indipendentista. Occupy Nutella! Reclaim the nuts!

Nutella indipendentista e auto-solidal

Ingredienti:

- 50 gr di nocciole tostate spellate
- 30 gr di cacao
- 30 gr di cioccolato bianco
- 350 ml di latte fresco intero
- 70 gr di zucchero

La ricetta è scopiazzata da questa che vorrebbe anche la lecitina di soia. Se l'avete in casa mettetela, se come me non ce l'avete amen. Dunque per prima cosa si frullano le nocciole ottenendo una farina oleosa (e che rimarrà anche un po' granellosa perché le macine della Ferrero nessuno di noi ce le ha in cucina credo) e profumata assai. Poi la si mescola con il cacao, un cucchiaio di zucchero e un circa 100 ml di latte, fino ad ottenere una crema il più possibile omogenea. Nel frattempo si mette il resto del latte, dello zucchero e il cioccolato bianco sul fuoco, finché il cioccolato non si scioglie (consigliato pentolino antiaderente). A quel punto si aggiunge la crema al cacao e nocciole e si fa andare a fuoco molto basso, mescolando. Prima però trovatevi qualcosa di interessante da ascoltare o da guardare, perché la Nutella indipendentista ed ecologica richiede tempo, circa mezz'ora. Ma è un piccolo prezzo in confronto a quanto state per guadagnare: la libertà.

Da ora in avanti, infatti, quando al supermercato vi troverete davanti alla schiera serrata degli ignobili barattoli potrete affermare: la guerra del popolo contro Nutella non è ancora vinta, ma nel duello, modestamente, ho spaccato. Come estremo sfregio, è raccomandabile utilizzare per la vostra personalissima e vera crema al cacao e nocciole un ex-barattolo di Nutella, su cui scrivere rivendicazioni e ingiurie indirizzate contro il neoliberismo e l'oppressione. Free nuts!


PS: ricetta non adatta a coloro che hanno una passione perversa per il sapore della Nutella tal quale. A loro, non senza provarne pietà, consiglio se vogliono risparmiare e boicottare Ferrero di comprare direttamente un barile di olio di palma.

giovedì 19 gennaio 2012

Servire la cena sulla Costa Concordia

Così come la rete e tutti i mondi più o meno alternativi inventati dal Capitalismo, anche la nave da crociera ha dei tratti caratteristici: nata per soddisfare i gusti di un target globale il cui immaginario di divertimento è tarato sul modello di Las Vegas, è fondata sullo sfruttamento di competenze raccolte in giro per il mondo alla bisogna e gerarchizzate su basi discriminatorie, fortemente razziste e sessiste. Non solo, ma vive grazie al fatto di occultare sistematicamente la verità di quello sfruttamento sotto la cappa di brand che hanno fatto di un aggressivo pervertimento della realtà della nave la garanzia della loro sopravvivenza e anche della loro innocenza. Lo vediamo benissimo anche in questi giorni: Costa Crociere scarica il suo capitano e gli addossa tutte le colpe, quasi si fosse trattato di un sabotatore che, sequestrando passeggeri e azienda, si divertiva a fare surf fra gli scogli per suo piacere personale e non - evidentemente - perché le sfilate a cinquanta metri dalla riva erano parte del suo incarico.

E la realtà della nave, di quella città di neon costruita a misura di un pubblico globale brutalmente appiattito, fatica ad emergere anche ora, all'indomani di un disastro che forse ha acceso qualche timida luce sui rischi che viaggi di quel tipo comportano per i passeggeri e per l'ambiente che le navi attraversano. Sui membri dell'equipaggio, invece, non si sa quasi nulla, se non che parlavano una miriade di lingue e che questo, in qualche misura, avrebbe ulteriormente ostacolato la messa in salvo dei passeggeri. Come se il fatto di non sapere le lingue fosse colpa loro, fosse l'ennesima riproposizione del canone che vuole gli asiatici - ma i servitori in generale - indolenti e rancorosi, pigri, pronti a tradire e a fare il loro interesse.

Di loro invece parlano Valentina Longo e Devi Sacchetto sul Manifesto di ieri, restituendo un quadro davvero inquietante di segregazione e discriminazione generalizzati: "Solitamente a mano a mano che le mansioni cominciano a entrare nell'obiettivo dei passeggeri, si assiste a uno sbiancamento delle maestranze, sebbene permangano alcune eccezioni volte a rafforzare i meccanismi di riproduzione dell'inferiorità. Sotto la linea di galleggiamento nelle lavanderie ci possono essere cinesi, in cucina indiani, mentre qualche piano più su le pulizie nelle cabine vengono svolte da malgasci e indonesiani, e poi baristi e camerieri esteuropei, agenti della sicurezza israeliani e indiani, animatori così come ufficiali di macchina e di coperta italiani, bassa forza marittima rumena. Nel migliore spirito colonialista non possono mancare animatori e animatrici brasiliani perché hanno il ritmo nel sangue e coinvolgono i passeggeri in danze che si vorrebbero sfrenate."

E tale segregazione, tale riproposizione in scala delle disuguaglianze globali, si riproduce anche, com'è ovvio, nella questione salariale. In un reportage di Luca Galassi sul mensile di Emergency, si parla di personale pagato 450 dollari al mese (da notare, dollari) per 12 ore di lavoro al giorno nelle mansioni più umili. Un gradino più in alto stanno precarie e precari addetti al rapporto con i clienti, e quindi solitamente bianchi, possibilmente italiani, giovani, sorridenti e capaci di incarnare al meglio lo spirito dell'azienda, che è quello espresso nei nomi delle sue ammiraglie: Serena, Concordia. Quello che l'azienda vende è un viaggio a basso impatto emotivo, in un parco giochi in cui i passeggeri vengono presi completamente in carico da un organismo apparentemente tanto sfavillante e opulento quanto placido e armonioso. La realtà della nave, appunto, occultata sotto uno spessissimo strato di moquette.

Un'altra realtà, antitetica a questa direi, traspare dalle cronache borsistiche: il titolo Carnival, già da un anno in inesorabile discesa, ha perso il 18% del suo valore in un solo giorno all'indomani del disastro. Per rassicurare i mercati, la nave andrà rimessa in condizioni di galleggiare.

In mezzo, la classe media sempre più spaesata e sottile.

lunedì 16 gennaio 2012

Informazione di servizio

Date le ultime vicende di cui si è occupato questo blog, ritengo opportuno spostare la rubrica culinaria di svacco del lunedì alla prossima settimana.

sabato 14 gennaio 2012

Costa Concordia, nata a Fincantieri, morta in un paradiso naturale

Costa Concordia, mostro di 300 metri e 114.000 tonnellate, muore oggi a poche decine di metri dall'Isola del Giglio, parte del Parco Nazionale dell'Arcipelago Toscano. Questo Titanic nostrano, ucciso per consentire ai 4000 passeggeri di scattare suggestive fotografie notturne di quel presepe naturale che è, appunto, il Giglio, era stato costruito nei cantieri di Sestri Ponente ora minacciati di chiusura e in mobilitazione.

Alcuni di quei 4000 passeggeri la grande nave li porta con sé, e questa è una tragedia che toglie ogni parola.

Sembra che quella sfilata panoramica, durante la quale la nave scuoteva l'isola con il suo boato di saluto, fosse un'abitudine, che fosse parte del pacchetto che il viaggio comprendeva. Scavare con la chiglia alcuni dei fondali più belli del Mediterraneo solo per regalare ai passeggieri uno scorcio di meraviglia era una prassi comune.

All'interno, nel frattempo, un equipaggio di 1100 persone si adoperava per nutrire, scaldare, rassettare, lucidare, dissetare, intrattenere, servire. Da quando la Costa approda a Savona, nel piccolo porto della mia città è nato un negozio di generi alimentari filippini che apre praticamente solo quando la nave è attraccata. Ed era proprio lì che era diretta, per poi continuare verso occidente. Di quello che il passaggio della Costa Concordia comporta nella mia piccola città, ho parlato qui solo pochi giorni fa.

La vicenda di questo mostro, di questo parco giochi galleggiante, è un proverbio sulla crisi. Chissà, forse qualcuno lo prenderà anche come un segno, all'alba di un 2012 che per certi pazzi è già sinonimo di Apocalisse e che in ogni caso sembra ci farà accelerare sempre più sulla strada del default. Di certo è una notizia che colpirà non poco quel che rimane della classe media europea, che credeva di poter sognare ancora, di poter continuare a livellare il fondo del mare a misura dei suoi desideri di lusso e spensieratezza, in quello scrigno di indifferenza e lustrini che la nave da crociera, da sempre, è.

Secondo le ultime notizie diffuse da Rai News 24, la proprietà ha già messo in moto una squadra di lavoratori specializzati nella messa in sicurezza e nel recupero di simili giganti. Ma anche ipotizzando che con una cicatrice di 70 metri sul ventre un paese dei balocchi del mare possa riprendere il compito per cui è stato varato, è certo che qualcosa, in quel mondo di sogno, si è spezzato.

martedì 10 gennaio 2012

Pizzaioli sull'orlo di una crisi (di nervi)

Un paio di giorni fa ho saputo che il mio amico pizzaboy - quello che profetizzava un bellissimo 2012 - ha perso il lavoro. Il suo nuovo capo ha approfittato di una litigata tra colleghi per cacciarlo, ma la verità è che gli affari sono calati drasticamente, e gli serviva una scusa per tagliare sul personale.

Il mio amico non può permettersi nemmeno un giorno di pausa, per riflettere. Dopo tre giorni di disoccupazione è completamente senza un soldo, strozzato dai debiti. Persino ai suoi occhi così portati all'ottimismo l'Italia appare ormai un paese da cui non aspettarsi più nulla. Vorrebbe tornare in Pakistan, ma non ha nessuna possibilità di procurarsi i soldi per il viaggio. Ora quando scende la sera fa il giro delle pizzerie - come i tanti che arrivano in quella in cui lavoro io - confidando di trovarne una a cui serva un tappabuchi. Non sopporta più di andare in giro al freddo, senza patente e senza assicurazione, rischiando continuamente la pelle, il permesso di soggiorno e l'unico oggetto di valore in suo possesso, ovvero il motorino. Ma non trova nient'altro.

Da me, nel frattempo, ci si prepara per il contraccolpo dovuto all'aumento dei prezzi. Ci si prepara psicologicamente, perché materialmente è impossibile. Il nuovo menù vedrà aumenti anche del 15%, indispensabili per ammortizzare quelli dell'IVA, delle bollette e delle forniture. Dopo il lungo letargo delle feste, le entrate stentano a ritornare sui livelli di un mese fa e il boss si fa sempre più paranoico, riversando il suo nervosismo su tutti noi dipendenti. Immaginate lo stesso quadretto, fotocopiato per centinaia di piccole attività in ogni città.

Il cuoco, che è quello che passa più tempo a contatto con il capo (che è cuoco a sua volta), finisce per rintanarsi spesso in un cupo silenzio, pieno di frustrazione. Vive con la sua ragazza, che è attualmente disoccupata e quando lavora è solo per brevissimi periodi, come commessa. Lui odia fare il cuoco. E' un mestiere molto faticoso, difficile e stressante, ed è un grossissimo impegno reggerlo a pranzo e a cena, sei giorni su sette. Io non ce la farei mai. Come il mio amico pizzaboy, però, anche lui tira dritto per quella via, che è l'unica che gli si apre davanti agli occhi per quanto si sforzi di aguzzare la vista. Anche lui spesso non riesce a dormire. Ha più o meno la mia età, e la mia impressione è che sia talmente preso dalla necessità di boccheggiare pochi centimetri sopra la superficie, da non riuscire nemmeno a visualizzare l'enorme profondità sotto ai suoi piedi, e le sterminate distanze che si aprono in ogni direzione, affollate di persone come lui.

All'altro capo del telefono, ogni mattina chiamano le stesse impiegate di assicurazioni, banche, finanziarie. La loro voce è morbida, rassicurante, convincente, come dev'essere d'ufficio la voce di chi ha a che fare coi soldi. Ma man mano che passa il tempo i loro pranzi si fanno sempre più magri.

domenica 8 gennaio 2012

Nuova rubrica culinar-precaria del lunedì: le ricette de La Pentola d'Oro

Ogni Natale mi faccio un auto-regalo, e tipicamente si tratta di qualcosa che, come del resto suggerisce il nome, è del tutto auto-referenziale. E in quanto a questo, l'auto-regalo del Natale appena trascorso ha battuto ogni record. Mi sono infatti regalata il libro di cucina Pentola d'Oro, un libro che probabilmente ha fruttato a questo blog alcune delle sue primissime visualizzazioni.

Che esistesse un libro di cucina chiamato Pentola d'Oro per la verità l'ho scoperto diversi mesi dopo aver aperto il blog. Mi trovavo in Sala Borsa a leggere, e quando ho sollevato la testa dalla mia postazione me lo sono ritrovato proprio davanti agli occhi. Era una vecchia edizione grossa come un volume di enciclopedia. Molto dopo sono venuta a sapere che ne esisteva anche un formato di ultimissima uscita, adatto alle cucine del XXI secolo, ovvero taglia mignon, perfetto per essere infilato nei pochi centimetri liberi di una stanzetta arredata Ikea e stipata di minuscoli suppellettili: piccolo frigo, fornello elettrico, lavandino con un'unica vasca, tavolo per cene molto intime.

Per fortuna la mia cucina non è messa proprio così male, anche se il tavolo traballa, le credenze non stanno chiuse e il forno sembra provenire da uno scambio commerciale tra potenze dell'Asse (è un cubo nero - peraltro assai mal funzionante -il cui marchio, con tanto di aquila, è "La Germania". Giuro ). Uno dei vantaggi dell'abitare in condivisione è che spesso - non sempre - ci si evita il cubicolo Ikea. E anzi nelle case migliori la cucina diventa una specie di biblioteca di ricordi, che raccoglie fotografie, oggetti, persino piante appartenute a persone che hanno abitato l'appartamento in passato. E' la memoria storica della casa, e anche chi è finito a viverci senza conoscere nessuno, rispondendo a un annuncio magari, viene subito accolto da pareti e mensole che sfoggiano imperturbabili la loro vecchiaia, portando addosso tracce di tutti i frammenti di vita che al loro riparo si sono svolti. E' qualcosa di estremamente rassicurante, soprattutto per chi abita in una città in cui si sente ancora straniero.

La mia cucina, poi, è particolarmente evocativa. Non solo vi si trovano foto e messaggi di persone che non ho mai visto, ma la credenza è una vera e propria dolomite di spezie: vi sono accumulati sacchetti e barattoli provenienti da ogni angolo del mondo (alcuni dei quali dal contenuto intelleggibile a noi posteri), frutto dei viaggi di persone che cucinavano qui molto prima di me. Tajin messicano, berberè dell'Etiopia, olio piccantissimo brasiliano, origano di Andria, curry indiano. Anche i piatti e i bicchieri hanno un'origine per lo più misteriosa e sono assai interessanti per chi volesse dedicarsi alla storiografia dell'appartamento. I piatti appartengono ad almeno cinque servizi diversi e i bicchieri sono tutti entrati a far parte del corredo domestico in seguito a loschi ladrocini a danno delle osterie bolognesi durante serate ormai perse nell'oblio. Un enorme boccale di birra da un litro, rubato chissà come, ospita talvolta dei mazzi di fiori a centro tavola, mentre uno splendido ficus, trovato diversi anni or sono in un bidone della spazzatura, sopravvive incurante della nostra totale assenza di riguardo nei suoi confronti. Voi siete di passaggio, sembra dire, io no.

E' tra queste quattro mura il cui intonaco avrebbe bisogno di una rinfrescata, che io spendo talvolta le mie serate solitarie, tra fornelli, mestoli, impasti, tortiere e quant'altro. Di solito, ne approfitto per lasciare in sottofondo, nel mentre delle preparazioni, qualche programma I-M-P-E-R-D-I-B-I-L-E, tipo Piazza Pulita o Servizio Pubblico, in modo da essere un minimo aggiornata sui must have dell'indignazione pret à porter italiana. Oppure metto su qualche spettacolo di Bill Hicks che già conosco a memoria e rido a crepapelle. Ed è in queste circostanze che tenterò di scrivere con una qualche sistematicità - e sempre che qualcun* gradisca - la nuova rubrica del lunedì, una rubrica di ricette e di riflessioni masticate cucinando, a pancia vuota e con il cibo che sobbolle sulla fiamma.

I piatti che vi proporrò proverranno in parte dalla mia memoria e in parte dal libro Pentola d'Oro. Quest'ultimo è certamente una pubblicazione adatta a coloro che, come me, amano qualche volta mangiare pesante. Vi si trovano, in dosi fatali, tutti i cibi proibiti dai dietologi e anche quelli vietati dalle leggi a protezione della fauna. Inutile specificare che io affronterò solo le ricette di cui - vuoi per problemi di reperibilità, di prezzo, o di etica - riesco a procurarmi gli ingredienti senza troppo sbattimento e che mi consentono di fare altro durante la giornata. Niente di troppo impegnativo insomma, ma solo un tentativo di regolamentare la tempistica del blog in una modalità che mi risulti friendly e gradevole al palato. Ed ora, dopo questa lunghissima intro, ecco la prima ricetta.


Uova alla boscaiola

Quale scelta migliore, per il battesimo di una nuova rubrica mangereccia, di una bella ricetta contadina e persino un po' tedesca, di quelle che sanno di lungo buio invernale, spifferi, finestre appannate, cibo che serve per carburare calore, per far fluire il sangue e spezzare il languore di corpi costretti in case sempre troppo fredde.

Prima di tutto occorre far bollire le patate. Nel frattempo si puliscono i funghi - che nel mio caso sono una squallida accoppiata di champignon e pleurotus da supermercato - e li si fa trifolare in padella con aglio e prezzemolo. Quindi si tagliano a fette le patate bollite e le si dispone in una teglia da forno imburrata, le si ricopre con una spolverata di grana e poi con i funghi. Con la forchetta si formano poi dei piccoli incavi nello strato di funghi, dentro i quali si metterà un altro cucchiaio di formaggio nonché il tuorlo e il bianco delle uova, una per ogni incavo. Il bianco tenderà ad allargarsi, impregnando di proteine i funghi, mentre il tuorlo rimarrà fermo come un bulbo arancione. La teglia boscaiola andrà in forno ben caldo - la Pentola dice 200 gradi, ma il mio forno La Germania non segna i gradi e quindi io vado un po' a sentimento - fino a quando i tuorli non si saranno cotti.

Da ghiottona precaria quale sono, non posso fare a meno di notare l'assonanza tra i meravigliosi quanto semplici ingredienti di questa ricetta, e quelli - non chiamate la neuro - del welfare state, del principio per cui lo Stato deve garantire una solida base di patate bollite a tutti i suoi cittadini. Sopra questo pavimento di cibarie inalienabili - come la sanità, il sussidio di disoccupazione, la scuola e così via - i cittadini passeggiano alla ricerca di quel misterioso frutto boschivo che è il lavoro. Esso spunta con una certa periodicità, ma è immancabilmente soggetto alle variabili atmosferiche ed è molto schizzinoso in fatto di clima. Vuole terreni ombrosi, aria umida, radici ospitali a cui aggrapparsi. Altrimenti, scarseggia.

Chi è atavicamente legato al territorio ha qualche probabilità in più di trovare questa pregiata delizia. Bisogna conoscere i posti giusti, e si tratta di saperi che si tramandano di generazione in generazione. Coloro invece che sono appena arrivati devono accontentarsi di vecchi gambi rinsecchiti, lasciati a marcire da altri, oppure restare a bocca asciutta. Inoltre, ci vogliono buoni occhi, gambe robuste e molta pazienza. Occorre talvolta inerpicarsi lungo le gole dei ruscelli e addentrarsi nelle profondità dei boschi, muovendo foglia per foglia. Finire sulle tracce di un altro cercatore, o al contrario rovinargli la perlustrazione precedendolo, è praticamente inevitabile. Poi, bisogna accontentarsi. Gli ovuli, con i loro bei cappelli rossi e le carni delicate, non sono meno rari di una vincita al lotto e persino i porcini, che hanno l'aria ben più gioviale, si mostrano difficilmente se non durante stagioni di eccezionale abbondanza. Assai più facile è incontrare qualche colombina violacea o color verdone, oppure imbattersi nel largo cappello brizzolato di una mazza di tamburo. Il sapore non è dei più fini e la consistenza è un po' acquosa, ma è meglio di nulla. Tutti noi sono poi solitamente in grado di procurarsi una vaschetta di champignon già puliti e incellophanati, allevati nella monotona garanzia di una serra. Ma ci vogliono soldi per averli, ci vogliono capitali da investire in stage gratuiti, corsi di formazione, master, tirocini. Inoltre il loro prezzo è collegato alle fluttuazioni dei carburanti e dei fertilizzanti, alla percentuale dell'Iva e all'inflazione. Insomma, non sono poi sta gran certezza.

Per quanto riguarda le uova, per non farne una pessima frittata occorrono buone basi. Ci vuole mano ferma per non mandare all'aria la vita che contengono. Se non si possiede nulla con cui condirle e avvolgerle è meglio non averne per niente e quando poi vengono a mancare persino le patate bollite, nemmeno il potenziale di una gallina ruspante ha più alcun senso. Il capitalismo è così, è come una ruota della fortuna truccata in cui al posto di una delle cifre c'è la Grande Carestia irlandese.

Spero che i miei discorsi non vi abbiano rovinato l'appetito e che non vi abbiano fatto passare la voglia di assaggiare questa ricetta. Se invece è così e avete finito per odiare Mike Bongiorno e abbracciare l'anti-capitalismo beh...ancora meglio.

A proposito di welfare state, consiglio la lettura di questo post. E mò beccatevi una foto di me che taglio i funghi (con il ficus, imperterrito, sullo sfondo).

martedì 3 gennaio 2012

Qualcosa di meglio

Oggi avrei dovuto ricominciare a lavorare in pizzeria. Peccato che ieri, mentre mi trovavo già a Genova con valigie al seguito, il boss mi abbia telefonato per dirmi di non presentarmi fino a sabato. Non c'è lavoro, ha detto con il suo consueto trivellare di giustificazioni, di panzane e di cliché autocommiseranti. Mi ha tenuta al telefono dieci minuti per dare l'impressione di tenerci a me, ma in realtà blaterando a raffica per impedirmi di parlare. Tra le sue consuete frasi di rito ha infilato un vigliacchissimo "Se trovi qualcosa di meglio, ti capisco e ti auguro ogni bene".

Secondo te, gli avrei volentieri detto, se riuscissi a trovare qualcosa di meglio starei a sgobbare senza ferie, senza malattia, sette giorni su sette, senza nemmeno orari fissi e alle dipendenze di un coglione per racimolare cinquecento euro al mese? Lavorerei il giorno di Natale per mettere insieme orrendi articoletti promozionali in cambio di pochi spiccioli?

In una città in cui la disoccupazione è aumentata del 75% in cinque anni, quello del mio capo non è un augurio, e neanche un invito: è una presa per il culo.

Qualcosa di meglio: bella formula del cazzo. Tradotta in inglese, sembra un titolo uscito direttamente dagli anni '80, capace di stuzzicare la voglia di eterna gioventù di una cultura già sfracellatasi contro la crisi, che barcolla dopo l'impatto un attimo prima di perdere i sensi. Rinnovarsi, reinventarsi, cambiare, cercare il meglio, trovare la propria strada. Tutti sinonimi per raccontare il cittadino autocentrato, determinato a perseguire la sua realizzazione, consumatore di beni tra cui si trova anche il lavoro. Il lavoro è una merce, e quindi se non ti soddisfa cambia fornitore.

Torno a casa, controllo la mail. Un tizio spagnolo per conto del quale gestivo un forum online mi ha scritto della possibilità di riprendere il lavoro. Chissà se mi ha risposto, chissà se mi propone...