martedì 24 aprile 2012

Quando il capo è un maschilista

L. mi racconta questa storia ridendo, ma la sua è una risata che non ha nulla di liberatorio. E' la risata di chi trova le cose troppo assurde e grottesche per riderne davvero, e allora usa il sarcasmo per mettere tra sè e il resto almeno una barriera di carta, che le permetta di continuare a fare il suo lavoro senza avere sempre davanti agli occhi un pessimo spettacolo.

Il suo capo è un maschilista, un maschilista rampante, di quelli che usano il successo come dimostrazione della loro superiorità e allo stesso tempo come strumento per imporla. Per esempio, assumendo solo dipendenti donne, e tediandole con battutine e doppi sensi a cui, per la loro posizione appunto, si presume che non debbano reagire, ma che anzi sono invitate ad assecondare. E quando la conturbante realtà dei fatti - per quante cravatte, moto da corsa e battute sessiste lui sia in grado di estrarre dalla ventiquattr'ore - irrompe spezzando l'incantesimo che custodisce la porta del suo ufficio, tanto vale negarla, perché non si espanda come una macchia di sudore freddo sulla camicia o come un'onda di vendite sul suo titolo in borsa.

"Ho cacciato la nostra collaboratrice a Roma", dice alle ragazze dell'ufficio bolognese, "ci ha quasi fatto perdere un cliente. Allora l'ho cazziata talmente tanto che lei ha dovuto chinare la testa e andarsene". Il maschilista non ha bisogno di verità matematiche, di certezze storicamente comprovate o di logiche incontrovertibili. Nel suo mondo non ce ne sono, e lui ha imparato a farne a meno fin dall'infanzia, come quelle piante di pomodori che si adattano a vivere all'ombra. Alla pari dei pomodori i maschilisti devono allungarsi sempre di più, allontanandosi da terra, per cercare una qualche luce che li conforti.

Dall'alto della sua vertiginosa posizione, il datore di lavoro può scorgere la ex collaboratrice romana mentre raccoglie le sue poche cose dalla scrivania dell'ufficio e consegna la lettera di dimissioni, e può far finta di non vedere il sorriso stampato sulla sua faccia e i biglietti per la partenza (in direzione di una borsa di studio e di un lavoro di certo migliore) già infilati nella tasca. O forse non la guarda nemmeno e, seduto alla sua poltrona girevole, ripercorre mentalmente la cazziata immaginaria con cui, già si è scordato di pensare, s'è salvato in corner.


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