martedì 25 novembre 2014

Una storia vera del Pratello

Circa un paio di settimane, fa una ragazza è andata in uno dei bar della zona del Pratello per bere qualcosa. Chissà quante volte l'aveva fatto nella sua vita, alla fine di una settimana di lavoro. Chissà quante volte l'ha fatto ciascun@ di noi.
Qualcuno le offre un bicchiere, lei accetta. Che cazzo, è venerdì sera, domani si può riposare! Ci si può anche permettere un bicchiere in più per prolungare la serata, per rimanere in giro ancora un po' in questo tiepido autunno.
Pochi minuti dopo, il vuoto. Si spengono la coscienza e i ricordi. Quando la coscienza torna è già mattina e la stanza in cui la ragazza si trova è una stanza che non conosce. Non sa com'è ci sia arrivata, non sa in quale punto della città si trovi, non sa di chi sia quella stanza. L'uomo che l'ha portata lì, non c'è. Esce, incerta sulle gambe. Cerca un punto di riferimento nella città in cui vive - quella bella città di portici riparati e di bar affollati in cui per una serata si possono dimenticare gli affanni, in cui si possono trovare compagni per una notte dentro cui pescare ricordi di gioia nelle giornate tristi - che all'improvviso non riconosce più. O peggio, che per la prima volta pensa di conoscere davvero, come se la serenità che percepiva camminando per le sue strade, parlando con gli sconosciuti incontrati una sera, fosse stata la vera incoscienza. Che stupida, si dice. Che pazza idiota. Avrebbe dovuto saperlo. Avrebbe dovuto capirlo, prevederlo, impedirlo. Tornare a casa prima, guardandosi le spalle. Correre fino a casa. Uscire con un amico, qualcuno di fidato. Da sola mai, mai. Da sola si sbaglia, non si è abbastanza forti e intelligenti per stare da sole, per camminare da sole nella propria città, per parlare con chi ci pare, è evidente.
Non sa cosa sia successo quella notte, non ricorda nulla. Sa solo quello che le dice il suo corpo. E forse è anche peggio, perché in quel nulla potrebbe esserci qualunque cosa. L'immaginazione immerge il mestolo nel recipiente più putrido.
Arrivata a casa, telefona a qualcuno. Una voce amica al di là del telefono, c'è ancora nonostante tutto. Racconta quel poco che sa. E' terribile non poter dire nient'altro. "Ignorante", per i bolognesi, è l'insulto peggiore.
Denuncia, le dicono. No. Quel buio è una vergogna troppo grande. Quel non sapere niente di sé. Quel credersi chissà chi, stupida arrogante che pensavi di conoscere il mondo, mentre non ne sai proprio nulla. Che ci sei cascata. Che ti sei fatta fregare come se fossi nata ieri. E ora non sai nemmeno da che cosa ti stai lavando sotto la doccia. Era lui da solo o c'erano anche degli amici? Chi lo sa. Se te lo chiedessero, non sapresti rispondere. Quante volte? Non lo so. Potresti essere incinta? Potresti. Potresti esserti beccata l'Aids? Potresti. Non si può davvero portare tutto questo in cui commissariato di polizia. Non si può davvero sentirsi così stupide e incapaci e fallite in un aula di tribunale. Davanti a quegli sguardi  che dubitano prima, e poi compatiscono e rimproverano. Meglio lasciar perdere. Dopotutto non c'è niente in un quel vuoto. Ci sei solo tu.

venerdì 10 gennaio 2014

Non ci sono generazioni perdute. Una nota di Pavese.

Questa nota di Pavese, datata 1950, è una risposta al giornalista cattolico Carlo Falconi e a un suo articolo sulla narrativa di ispirazione marxista. La riporto (quasi integralmente) perché come tante cose di Pavese scritte in quegli anni mi sembra contenga degli ottimi consigli per il presente.

Per oggi ci preme rilevare la frase che uno "scrittore comunista" ha detto a Falconi intorno alla crisi, all'insufficienza narrativa del nostro tempo: "La nostra è una generazione in un certo senso perduta, e non si può pretendere di più...La nostra testimonianza non può essere che polemica e imperfetta... Domani i nostri figli... potranno essere invece i testimoni liricamente o epicamente sereni, ecc ecc". A noi questa frase ripugna profondamente, e non abbiamo difficoltà a dire il perché. Non ci sono generazioni perdute - ci sono dei lavoratori e dei fannulloni, dei confusionari e delle persone intelligenti. Se anche una sola generazione avesse il destino culturale di riuscire perduta, di sacrificarsi in toto alla successiva, allora per tutte sarebbe così e ci si domanderebbe a che scopo lavorare ancora. Chi non sa di essere felice "qui e ora", non lo sarà mai. E scrivere, sia pure combattendo, vuol dire essere felice. Lo scrittore che non si contenta del suo lavoro nei giorni che gli è toccato di vivere, non è uno scrittore. E siamo certo che non lo sarà nemmeno nel giorno beato in cui la società finalmente socialista gli offrirà i più impeccabili modelli di civismo. Allora troverà che il mondo non è ancora comunista. E così via.
La poesia (anche quella dei neorealisti) non ha nulla a che fare con queste velleità, con queste scappatoie. La poesia è l'immagine "chiara" di ciò che nell'esperienza ci è parso "oscuro", "misterioso", "problematico". In qualunque esperienza. E in qualunque momento storico ci tocchi di vivere.

(Da La Letteratura Americana e altri saggi)